XXVII CONGRESSO NAZIONALE TORINO, 6-8 NOVEMBRE 2021

MELANOMA, – 80% INTERVENTI SUI LINFONODI CON LA TERAPIA ADIUVANTE

IMI, VINCE L’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE CON CHIRURGIA PIU’ MIRATA

1. MELANOMA – 80%DEI LINFONODI CON LA TERAPIA ADIUVANTE. VINCE L’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE CON LA CHIRURGIA PIU’ MIRATA 

La terapia adiuvante cambia radicalmente il volto della chirurgia del melanoma e del carcinoma squamocellulare avanzato. Negli ultimi due anni i farmaci somministrati allo scopo di ridurre il rischio di recidiva hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti ed hanno permesso una chirurgia più mirata: ad oggi sono diminuiti dell’80% gli interventi sui linfonodi sentinella positivi con metastasi microscopiche, sono calate le dissezioni linfonodali inutili, mentre sono incrementate notevolmente le metastasectomie di pazienti un tempo ritenuti inoperabili.

Non solo: l’immunoterapia si affianca alla chirurgia migliorando notevolmente la sopravvivenza anche dei pazienti con tumore non melanoma avanzato purché sia gestito con un approccio multidisciplinare e le varie opzioni vengono discusse da un team di specialisti che concorda la sequenza delle terapie e degli interventi. È quanto emerge dal XXVII Congresso Nazionale IMI – Intergruppo Melanoma Italiano, in corso dal 6 all’8 novembre a Torino.

“La chirurgia del melanoma – spiega Roberto Patuzzo, Chirurgo presso la Divisione Melanoma e Sarcoma dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano – è diventata sempre più mirata e complessa poiché sono cambiate le indicazioni grazie alle terapie adiuvanti, con il risultato che si è modificata la tipologia del paziente ricoverato.”

In pratica – sottolinea Pietro Quaglino, professore associato di Clinica Dermatologica dell’Università di Torino – la chirurgia è ‘disegnata’ sul paziente e anche se non è più la prima scelta è un tassello fondamentale del percorso di cura multidisciplinare.”

Se in passato la prassi richiedeva la biopsia del linfonodo sentinella e successivamente, in caso di positività, la dissezione radicale completa della stazione linfonodale corrispondente, attualmente, grazie alle nuove indicazioni, molte di queste asportazioni sono diventate inutili e si può iniziare la terapia medica adiuvante intervenendo chirurgicamente solo quando il linfonodo è palpabile e visibile ecogragicamente, in uno stadio molto più avanzato.

Inoltre – continua Quaglino – è stata introdotta una nuova classificazione nell’ambito dello stadio III che porta da 3 a 4 i sottogruppi, denominati A, B, C e D caratterizzandoli meglio e definendo lo stadio III D quello a prognosi più sfavorevole. Una distinzione che corrisponde a profonde e importanti differenze di sopravvivenza e che aiuta gli specialisti a definire meglio il percorso di cure da attuare. Se, infatti, la sopravvivenza dopo 10 anni dello stadio III A è superiore all’80%, per  il III D è di circa 25%.” 

Tante conquiste che da un lato migliorano notevolmente le prognosi, ma che dall’altro hanno reso più complessa la gestione chirurgica di questi malati che spesso si cronicizzano, presentando ricadute o risposte miste.

“Oggi – dichiara Patuzzo – oltre ad operare come sempre il primo, il secondo e, soprattutto, il terzo stadio di malattia, interveniamo anche sul quarto stadio e sulle metastasi perché eliminandoli chirurgicamente e somministrando poi al paziente terapie mirate lo rendiamo di nuovo libero dalla malattia.”

“Più che il numero delle asportazioni dei linfonodi – aggiunge Corrado Caracò, responsabile della Chirurgia del Melanoma e tumori cutanei all’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale di Napoli – è cambiato il profilo del paziente che oggi entra in sala operatoria ovvero quanto nel linfonodo la malattia è clinicamente evidente.” 

Sempre meno le indicazioni per le quali si interviene con una positività del linfonodo sentinella. Ma per gli under 18 e gli over 80, così come i soggetti con morbilità che non possono assumere i farmaci adiuvanti l’indicazione della linfoadenectomia radicale rimane il trattamento di scelta con intento curativo.

Cambia anche l’approccio chirurgico del non melanoma, in particolare del carcinoma squamocellulare avanzato.

“Nel 50% dei pazienti – afferma Caracò – l’immunoterapia offre risultati importanti, riducendo le dimensioni del tumore e rendendolo circoscritto e operabileUn successo che si traduce in un aumento della sopravvivenza e della qualità di vita di questi pazienti. Tuttavia, tutto questo funziona se il malato oncologico di stadio avanzato viene preso in carico in centri nei quali esiste un team multidisciplinari, dove il dermatologo, l’anatomopatologo, l’oncologo, il radiologo, il genetista e il chirurgo si confrontano stabilendo il percorso terapeutico migliore. Ora le carte da giocare le abbiamo, ma se le usiamo male la partita è persa.”

“L’appello che lanciamo come IMI – conclude il Presidente IMI Ignazio Stanganelli Direttore della Skin Cancer Unit IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori e Professore associato dell’Università di Parma – è incrementare i centri di eccellenza nei quali gli specialisti si confrontino e seguano le indicazioni dettate a livello internazionale.”

 XXVII CONGRESSO NAZIONALE

TORINO, 6-8 NOVEMBRE 2021

MELANOMA 2021, ECCO COME CAMBIANO LE CURE

IMI IN PRIMA LINEA NEGLI STUDI MULTICENTRICI INTERNAZIONALI

Sono molte le novità nella cura dei pazienti con melanoma avanzatoLa ricerca nel 2021, nonostante il COVID-19, non si è fermata e ha conseguito una serie di successi che cambieranno la pratica clinica a livello internazionale e, soprattutto, in Italia.

È quanto emerge dal XXVII Congresso Nazionale IMI – Intergruppo Melanoma Italiano, in corso dal 6 all’8 novembre a Torino, che ha visto l’Associazione medica multidisciplinare in prima linea negli studi internazionali.

SECONBIT, studio prospettico randomizzato in fase II, ha fornito un contributo per comprendere il miglior approccio sequenziale nella malattia avanzata. In questo studio sono stati arruolati, in 37 centri e 9 Paesi, tra i quali i centri di riferimento IMI in l’Italia, 251 pazienti con melanoma metastatico mutato Braf,  209 dei quali sono stati randomizzati. Tre le sequenze previste dallo studio: il braccio A ha assunto la target terapy (Encorafenib e Binimetinib) fino a progressione e immunoterapia (ipilimumab e nivolumab) a progressione; il braccio B ha eseguito la sequenza inversa e, infine, nel braccio C i pazienti hanno eseguito la target terapy per 2 mesi, sono stati quindi trattati con l’immunoterapia fino alla progressione per poi riprendere la terapia target, e, in caso di progressione, alla immunoterapia.

“È emerso – spiega Mario Mandalà, Professore di Oncologia Medica dell’Università degli Studi di Perugia – che a 2-3 anni sia la sopravvivenza globale (OS) che la sopravvivenza libera da progressione (PFS) è risultata numericamente migliore in chi ha fatto il braccio B o C. In particolare, l’OS a 2-3 anni è stato rispettivamente del 65% e del 54% nel braccio A, del 73% e del 62% nel braccio B e del 69% e del 60% nel braccio C. Il tasso di PFS complessiva è stato invece rispettivamente del 46% e del 41% nel braccio A, del 65% e del 53% nel braccio B, del 57% e del 54% nel braccio C. Il trend superiore, anche se non è ancora statisticamente significativo, è quindi quello che prevede in prima linea la somministrazione dell’immunoterapia seguita dalla Terapia targetLo studio essendo di fase 2, a bracci paralleli, non ha il potere statistico per confrontare in maniera robusta le tre strategie, ma costituisce una solida base di lavoro per futuri studi di fase III.”

Sorprendenti anche i dati di CheckMate 067Con i suoi 6.5 anni di osservazione e 945 pazienti affetti da melanoma avanzato e non operabile arruolati  – afferma Antonio Maria Grimaldi, Direttore della UOC di Oncologica Medica dell’Ospedale S. Pio di Benevento –  è lo studio che apre le porte alla immunoterapia di combinazione in prima linea di trattamento”.

Il campione di pazienti è stato suddiviso in tre gruppi ai quali è stata somministrata la combinazione nivolumab + ipilimumab, solo nivolumab o solo ipilimumab. È emerso che l’81% del campione trattato con la terapia combinata a 6.5 anni è ancora vivo senza fare altre terapie, perché non ha avuto alcuna progressione di malattia, contro il 74% di chi ha assunto Nivolumab e il 43% di chi è stato trattato con ipilimumab.

“Un successo enorme – sottolinea Grimaldi – considerando anche che la sopravvivenza mediana è risultata di 72.1 mesi, dato di mOS mai raggiunto in nessun altro studio clinico nel melanoma metastatico, contro i 36.9 del nivolumab e gli appena 19.9 di ipilimumab. Il dato di safety con l’aggiornamento a 6.5 anni conferma il dato elevato di tossicità di grado 3 e 4 per la combinazione, senza l’emergenza di nuovi effetti collaterali.”

Molto buoni anche i risultati dello studio KEYNOTE 716, in fase III, che utilizza la terapia adiuvante nei pazienti con melanoma stadio IIB e IIC e che, attualmente, una volta radicalmente operati, non fanno terapia, ma solo controlli periodici. A 976 pazienti è stato somministrato in doppio cieco pembrolizumab o placebo.  Il follow up a 14.4 mesi ha mostrato una riduzione delle recidive del 35% (HR 0,65) in chi prendeva il farmaco.

Un esito – spiega il Presidente IMI Ignazio Stanganelli, Direttore della Skin Cancer Unit IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori e Professore associato dell’Università di Parma – destinato a cambiare sostanzialmente la popolazione dei pazienti con melanoma che vengono trattati con la terapia adiuvante.”

Buone notizie anche sul fronte delle cure per il carcinoma cutaneo a cellule squamose (Cscc, o spinocellulare), il secondo tumore della pelle per incidenza e il primo per mortalità.

“Nell’ultimo anno – conclude Pietro Quaglino, professore associato di Clinica Dermatologica dell’Università di Torino – è disponibile in Italia cemiplimab, il primo anticorpo monoclonale anti-PD-1 specifico per il trattamento di questo tumore che pur non finendo spesso sotto i riflettori, rappresenta il 20% dei tumori cutanei e il cui impatto sulla qualità di vita è molto forte nei casi in fase avanzata, cioè circa il 5% di quelli diagnosticati. Oltre a poter essere somministrato nei pazienti anziani, la metà dei pazienti sviluppa una risposta entro due mesi dall’inizio della terapia e il 72% la mantiene ancora dopo ben due anni.”


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