Quando il bambino disabile diventa adulto
Un tema che è una sfida e che chiede di creare una cultura più ampia. “Il tuo limite la
mia ricchezza. Quando il bambino disabile diventa adulto”, questo il titolo del convegno che si è svolto nella sede dell’Untalsi Lombardia a Milano durante il quale si sono alternati un genetista, una psicologa, un sacerdote fondatore della Casa di Gabri – una comunità residenziale per minori disabili gravi. Tra gli interventi anche la testimonianza di Adriana Torelli mamma di Simone, un bambino disabile grave. Nell’aprire la sua relazione il genetista Angelo Selicorni, primario dell’ospedale Sant’Anna di Como, ha posto l’accento su due premesse: la base genetica delle disabilità da lui affrontate e la rarità con il rischio di appiattire il quadro clinico sulla malattia rara o rarissima, dimenticandosi che si sta parlando di bambini che sono come tutti gli altri, che accanto alle problematiche legate alla loro malattia hanno gli stessi problemi pediatrici dei loro coetanei, come quelli dentali. Un aspetto su cui ha richiamato l’attenzione è che non è detto che due bambini con la stessa sindrome siano uguali.
«La diagnosi eziologica è uguale, hanno la stessa mutazione genetica» ha detto Selicorni, mostrando l’immagine di due piccoli con la sindrome di Cornelia De Lang, «ma la diagnosi funzionale può essere diversa. In pratica – ha esemplificato – se la diagnosi eziologica è il binario che ci dà una direzione, la diagnosi funzionale è personale e dinamica, è il treno, cioè il bambino che a noi interessa ». Per quanto riguarda i cambiamenti che ci sono stati in questi decenni ha voluto ricordare che a migliorare la condizione delle persone con sindrome di Down non è stato il fatto che si è trovata la cura genetica, ma che vengano curate di più, c’è maggiore attenzione «gli vogliamo più bene», ha chiosato. Selicorni ha poi mostrato gli studi che dimostrano come nel 73% dei casi i minori con disabilità intellettiva grave provano dolore prolungato che non viene curato. Perché un ragazzino può provare dolore? La causa può essere una banale stipsi, o un mal di denti. Il dolore del bambino disabile si può e si deve misurare, ci sono scale osservazionali attraverso cui si può valutare. Il miglioramento della gestione dei sintomi ha fatto sì che dagli anni sessanta ai ’90 per i bambini con la distrofia muscolare di Duchenne si siano guadagnati nell’aspettativa di vita 20 anni. La terapia sintomatica cambia la vita, «le barriere sono la buona o cattiva gestione» ha ricordato.
Occorre conoscere: ha esemplificato ancora parlando per esempio delle urgenze con un giovane-adulto con sindrome di Williams che va al pronto soccorso con il mal di pancia. La diverticolosi intestinale è una delle malattie delle persone con sindrome di Williams e se il medico del pronto soccorso lo sa può cercarla e curarla come farebbe con un paziente settantenne, «ma se non lo sai non la vai a cercare in un ventenne». Per le persone con sindrome di Down nell’ultimo secolo si sono guadagnati 40 anni di aspettativa di vita, oramai tutti i centri che seguono i bambini down hanno più pazienti giovani-adulti. Un ultimo problema affrontato è quello dei problemi comportamentali dei giovani soprattutto con ritardo mentale lieve di 25 anni che vengono trattati come bambini e questo loop può creare delle situazioni psicotiche. In termini generali nelle persone con disabilità intellettive resta la vecchia diatriba tra un approccio comportamentale educativo e/o un approccio farmacologico.
«Smettiamola di pensare che il farmaco sia il male, aiutiamo i genitori a capire che un farmaco può servire a normalizzare la situazione e a inserire in un’attività che aiuta a prevenire. La gestione farmacologica in età giovane adulta è complessa» ha aggiunto sottolineando che spesso gli psichiatri non sanno neppure che questi ragazzi esistano: «C’è un lavoro culturale amplissimo da fare e il passaggio dall’età pediatrica a quella adulta è drammatico». Una delle ultime tematiche affrontate è stata la sessualità, in cui si intersecano moltissime situazioni con paure e ansie Occorre insegnare la gestione dell’affettività se non della sessualità. Nelle conclusioni ha ricordato che ciò che differenzia queste condizioni dalle malattie in generale è molto chiaro: in un bambino con una leucemia è molto facile la distinzione malato/malattia, il bene è il bambino, il male è la malattia. «In questa condizione malato e malattia coincidono, la lotta alla malattia è la distruzione del malato, pensiamo a tutto il discorso della diagnosi prenatale che a oggi ha la funzione di informare sulla presenza di un’anomalia con l’unico scopo pratico che se lo sai puoi interrompere la gravidanza. Malato e malattia coincidono».
E allora che cosa dà speranza ai genitori? La speranza di una cura? La ricerca? «sarebbe un po’ un’utopia. L’alternativa è la speranza che è una presenza affidabile», ha concluso.
Dopo le parole del medico al convegno sono risuonate quelle della mamma di Simone, bambino di cinque anni e mezzo. Adriana Torelli con semplicità ha raccontato come l’essere madre di Simone, un bambino disabile grave ha fatto sì che il ruolo di mamma sia finito in secondo piano «diventi infermiera, tralasciando le cose fondamentali per un bambino: l’essere considerato un bambino». Ne consegue che occorre anche avere il diritto di essere genitore e mamma, anche il semplice discorso di poter giocare con il proprio figlio, è tutto da imparare. Fondamentale quindi il ruolo degli operatori. La serenità – ha concluso – è nel guardare il proprio figlio e dire «io ho fatto sì che il tuo quotidiano fosse più sereno possibile».
Non ha usato mezze parole la psicologa Edy Salvan nell’affrontare il tema della sua relazione “La famiglia del disabile che cresce”. Partendo dall’analisi della condizione familiare in cui si riscontrano sia una maternità sia una paternità “ferita”. «Occorre lavorare per raggiungere una condotta genitoriale amorevole» ha ricordato prima di sottolineare come nella fase adolescenziale si viva uno scontro tra figlio e genitore molto forte anche perché da una parte «finisce l’illusione di una guarigione» e dall’altra si debba evitare il considerare il proprio figlio con disabilità un “eterno bambino”. «Ma quando possiamo definirli adulti?» ha chiesto la psicologa per rispondere che da una parte occorre considerare l’aspetto fisico, ma dall’altra «non lo diventerà mai se riteniamo adulta una persona in grado di autodeterminarsi». Ed ecco allora che occorre fare il passo verso l’accettazione del figlio reale. C’è poi nel genitore la preoccupazione per il futuro. «Una sensazione che può provocare vuoto o panico per cui alcuni arrivano a prolungare la cura. Il diventare adulto del ragazzo disabile si scontra con il pensarlo un eterno bambino e l’angoscia del genitore va ricercata nel fatto che mancano loro delle risposte» ha insistito Salvan introducendo il tema del “dopo di noi” che va preparato nel “Durante noi”. L’autonomia è un processo graduale che nasce con il bambino. Un problema per la psicologa è il fatto che spesso i genitori prima di considerare l’inserimento esterno pensano di caricare il proseguimento della cura si fratelli. «Il ragazzo deve essere aiut