ANEMIA FALCIFORME: IL 39% DEI PAZIENTI SOFFRE DI VOC PIU’ DI 5 VOLTE L’ANNO
Anemia falciforme: un nemico silenzioso e subdolo. Questa malattia rara, infatti, va ben oltre il
danno ai globuli rossi, con un impatto molto forte sulla qualità della vita dei pazienti ed effetti
su numerosi organi. È quanto emerge anche da “SWAY” (Sickle Cell World Assessment
Survey), un’ indagine internazionale, sponsorizzata Novartis, su oltre 2 mila pazienti affetti da
malattia a cellule falciformi, che ha coinvolto diversi Paesi tra cui l’Italia.
L’analisi, infatti, porta in luce un dato: il 39% dei pazienti soffre di crisi falcemiche associate a dolore (VOC). Si tratta
di eventi distintivi della patologia: gravi, imprevedibili, che possono rappresentare delle vere
emergenze sanitarie a causa della loro rapida evoluzione e alta mortalità. La media degli eventi
per i pazienti supera i 5 eventi/anno. Interessano torace, addome e articolazioni e spesso sono
gestite dai pazienti nella propria abitazione (nel 24% dei casi), senza ricorrere all’assistenza
medica. Una soluzione adottata soprattutto dai pazienti italiani. Dei 55 intervistati, infatti, ben
la metà dichiara di non ritenere opportuno rivolgersi al medico o all’ospedale in caso di VOC
poiché considera i trattamenti disponibili non risolutivi e decide di rimanere a casa aspettando
che il dolore passi. Il 72% inoltre afferma di sperare in una alternativa terapeutica più efficace
rispetto a quelle attualmente disponibili.
Le crisi vaso occlusive (VOC) e le relative complicanze acute però, rappresentano solo la punta
visibile dell’iceberg: tra una crisi di dolore e l’altra il processo della vaso-occlusione continua ad
avere luogo e produce effetti che causano danno vascolare, conducendo a un progressivo
danno agli organi con riduzione della funzionalità. Tutto ciò si traduce in una importante
riduzione della aspettativa di vita dei malati: circa 20 anni in meno rispetto alla popolazione
generale.
Questi temi sono al centro del ciclo di 4 incontri promossi da Inrete, con il contributo non
condizionante di Novartis, che si apre oggi con i tavoli regionali di Emilia-Romagna e Veneto e
che proseguirà con Sicilia e Lombardia. Gli appuntamenti si propongono di avviare una
discussione costruttiva sulla “malattia a cellule falciformi” alla presenza di clinici, tecnici,
istituzioni locali e centrali e associazioni di pazienti.
A evidenziare l’impatto negativo sulla qualità della vita dei malati è anche un’indagine narrativa
(in corso) realizzata dall’Area Sanità e Salute di ISTUD, con la collaborazione di Novartis Italia,
secondo la quale i pazienti rappresentano la malattia come qualcosa di “grave e invalidante”. A
oggi l’unica arma risolutiva per combattere la malattia è il trapianto di cellule staminali o di
midollo osseo. In alternativa, i pazienti ricorrono a trasfusioni di sangue o, per ridurre il
numero di crisi, all’idrossiurea. La ricerca però non si ferma e sono in arrivo nuove strategie
terapeutiche come spiega la Prof.ssa Lucia De Franceschi, Dipartimento di Medicina, Azienda
ospedaliera universitaria di Verona e referente per Anemie Rare Eurobloodnet (Rete Europea
malattie rare): “In Europa è stato recentemente approvato un anticorpo monoclonale che
agisce su un target specifico, la p-selectina che media la adesione cellulare, prevenendo e
riducendo significativamente le crisi vasocclusive. La sua introduzione nella pratica clinica ci
permetterà di valutarne anche l’impatto sulla patologia nel lungo termine così come sulla
gravità delle manifestazioni cliniche che coinvolgono organi target come il polmone, il rene, il
cervello, l’osso o il fegato, con una possibile ricaduta positiva sulla qualità di vita del paziente”.
Vita la cui aspettativa oltre a ridursi implica dolore, deterioramento fisico e cognitivo con
diminuzione di produttività lavorativa e scolastica in aggiunta a un numero maggiore di
consumo di risorse sanitarie, ambulatoriali ed ospedaliere. Anche recarsi in ospedale, in
particolare per i giovani pazienti, può rappresentare una sfida. Infatti, come commenta
la Dottoressa Raffaella Colombatti, dell’Oncoematologia pediatrica dell’Università di
Padova, “l'adolescente e il giovane adulto si recano meno volentieri in ospedale perché i
percorsi di gestione delle urgenze della drepanocitosi sono meno conosciuti nel mondo degli
adulti e non sempre il paziente trova dei medici esperti sulla sua malattia, per cui prova a
rimanere a casa e gestirsi, finchè può. Un altro aspetto cruciale – prosegue Colombatti – è
l'età della transizione: molti adolescenti devono imparare a gestire autonomamente la propria
patologia e il passaggio dal mondo della pediatria al mondo dell’ adulto non è semplice’.
Anche secondo Fabrizio Canonici e Michel Gyslene Nkongne – rispettivamente Presidente e Vice
Presidente Associazione Malattia Drepanocitica – e Costanza Musci,
Consigliere della Federazione Nazionale delle Associazioni UNITED Onlus- il ruolo del caregiver
non è facile poiché “deve imparare a riconoscere i segnali che anticipano una crisi, soprattutto
in un paziente adolescente, per cercare di diminuirne al massimo l’impatto e la sofferenza”.
Sofferenza che, sempre secondo i rappresentanti delle due associazioni, “deve essere evitata
con trattamenti che intervengano per prevenire le crisi, perché quando la crisi è passata hai
già sofferto molto e quindi, aspettiamo con ansia farmaci che possano ridurre al minimo
l’effetto delle crisi o che le possano prevenire”.