RICONOSCERE I SEGNI DELLA VIOLENZA, a cura della dottoressa GABRIELLA TANTURRI
di ADRIANA GUGLIELMINOTTI
Mai come in questi ultimi anni la violenza perpetrata, soprattutto nei confronti delle donne, è purtroppo
diventata una delle notizie in primo piano dei TG e mass media. Questo che oserei definire “dramma
sociale” è riconducibile a molteplici motivazioni: mancata denuncia da parte delle vittime di violenza,
prevalentemente per timore delle conseguenze, denunce avanzate e spesso o sottovalutate o addirittura
mai prese in considerazione, educazione famigliare deviante, patologie cognitivo comportamentali dei
carnefici e, non in ultimo, la mancata giusta lettura, da parte del personale sanitario, di quelle lesioni, più o
meno gravi, che non sono cagionate da cadute accidentali (così come spesso dichiarano le vittime) ma sono
la conseguenza di una violenza subìta in silenzio. Per non parlare poi della violenza psicologica che non
provoca lividi o fratture ma una profonda ferita dell’anima. Ecco che la Dottoressa Gabriella Tanturri,
medica e presidente dell’Associazione Amiche e Amici dell’Accademia di medicina di Torino, ha progettato
alcuni incontri finalizzati alla formazione del personale sanitario affinchè questo possa individuare quei
segni, di cui parlavo poc’anzi, che non vengono dichiarati né tanto meno denunciati. Ho avuto il piacere di
intervistare preliminarmente la Dottoressa Tanturri per sviluppare meglio l’argomento ed offrire magari
qualche spunto di riflessione o una “spinta” nei confronti di quel pubblico femminile che, leggendo questo
articolo, si riconosce in alcune situazioni.
1) Dottoressa, in riferimento all’attuale periodo storico che stiamo vivendo, le statistiche
registrano dati tragicamente interessanti e passibili di valutazioni anche giuridiche rispetto
alla “chiusura” dovuta alla pandemia? Guardi, con l’insorgere della pandemia nei primi mesi
del 2020, i media e i servizi specializzati hanno iniziato a parlare di un probabile aumento dei
casi di violenza contro le donne soprattutto tra le mura domestiche per il confinamento forzato
(lockdown), che, come è successo, poteva aumentare la difficoltà a denunciare e rivolgersi ai
servizi di aiuto. In particolare, molte donne che svolgevano lavori precari li hanno persi durante
la quarantena, sono così risultate più esposte, costrette a lunghe permanenze in casa,
diventando più dipendenti economicamente dai loro compagni con conseguenti maggiori
difficoltà a sottrarsi alla violenza. La casa è diventata una trappola. L’aumento dei casi di
violenza di genere nel mondo come conseguenza della pandemia è stato riconosciuto dalle
stesse Nazioni Unite che hanno definito questo fenomeno “pandemia ombra” proprio per
sottolinearne l’impatto devastante.
2) In quale percentuale, se è dato sapere, gli episodi di violenza erano già stati denunciati
precedentemente all’epilogo finale di femminicidio? Non sono in grado di risponderle con dati
precisi riguardo agli ahimé 91 femminicidi totali registrati nel 2020, 81 dei quali, l’89% del
totale, commessi in famiglia. Quello che posso dirle è che nel periodo del primo lockdown
(marzo-maggio 2020) si sono più che raddoppiate le chiamate al numero verde 1522 rispetto
allo stesso periodo del 2019, triplicate quelle via chat, quelle arrivate di notte o al mattino
presto. Che solo il 14,2% delle vittime che chiede aiuto al 1522 ha denunciato. Ma chi chiede
aiuto riferisce anche che l’atto violento si ripete nei mesi (21,9%) e negli anni (67,7%). La
maggior parte non denuncia la violenza subita, proprio perché consumata in famiglia, con tutte
le pressioni che questo comporta. Il peso del lockdown è confermato anche dal dossier
illustrato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: nei primi cinque mesi dell’anno i
procedimenti iscritti per maltrattamenti contro familiari e conviventi sono cresciuti dell’11%.
3) Si sa che la violenza sia un fenomeno trasversale, ossia interessi più ambiti e non solo quello
ginecologico ma molto spesso ha un coinvolgimento a largo spettro. Credo che, a questo
punto, entri prepotentemente in campo la formazione del personale sanitario che, pur non
rivestendo il ruolo di inquirente, deve possedere quegli strumenti che gli consentano di
giungere alla vera causa di una qualsivoglia lesione. Quali sono questi strumenti? La
formazione, e poi ancora la formazione….fatta da personale esperto, che in Piemonte davvero
per fortuna non manca.
4) Credo che, questo tipo di formazione, non sia unicamente rivolta al personale di pronto
soccorso ma anche e soprattutto ai medici di base che talvolta hanno maggiormente il polso
della singola situazione famigliare. E’ pur vero che il medico di base è “solo” ad affrontare
queste situazioni e dunque quale potrebbe essere il suo atteggiamento nei confronti della
vittima di violenza? Guardi, questo è un punto davvero delicato. Le statistiche (ISTAT) dicono
che le donne (comprese fra 16 e 70 anni) che hanno subito violenza fisica o sessuale sono il
14,3%. Il che vuol dire che un medico che abbia 1500 mutuati, avrà tra loro tra 65 e 70 donne
che subiscono violenza. Ma il medico di famiglia ha molti ostacoli: non pratica lo “screening”
(quale interrogazione ordinaria) su eventuali abusi fisici o sessuali perché conosce poco la
diffusione del fenomeno violenza; non ha il tempo (quanti carichi burocratici sugli MMG!), né la
formazione pratica per prendersi cura delle donne vittime di violenza; la Medicina affronta
nella pratica clinica e nella ricerca il nodo delle patologie al femminile con un metodo spesso
stereotipato, inappropriato e solo medicalizzato; bisogna anche tener presente che l’MMG
spesso ha tra i suoi mutuati anche il nucleo familiare della donna, ivi incluso il maltrattante.
Per questi motivi la SIMG, la società scientifica dei medici di famiglia, ha elaborato fin dal 2014
un progetto per aiutare gli MMG a capire e trattare la violenza e le sue vittime, quindi: nella
valutazione diagnostica differenziale prevedere la violenza come causa di malattia e far
emergere il problema attraverso il colloquio clinico; chiedere: “Si sente mai insicura in casa
sua? Qualcuno ha mai provato a picchiarla o a farle male?” mantenendo il discorso sul piano
anonimo proprio per facilitare le confidenze; e soprattutto saper poi indirizzare la persona
vittima di Violenza verso centri specializzati e/o di secondo livello.
5) Sicuramente l’aspetto psicologico non è un elemento trascurabile poiché, soprattutto il
personale di pronto soccorso, si trova spesso ad affrontare vittime che non cedono alla
confessione di violenza subìta. Dunque sarà fondamentale un lavoro di équipe presumo. E
allora come si devono comportare questi medici e/o infermieri? Anche questo non è facile e
richiede una formazione precisa. E’ indispensabile adottare un atteggiamento “non giudicante”,
mettere le persone a proprio agio. Far capire che si sentono sole, senza via d’uscita, ma ci sono
persone e strutture che possono aiutarle, anche se non hanno un soldo, anche se hanno figli
piccoli e/o non autosufficienti di cui si sentono responsabili e da cui hanno paura di essere
separate. Fornire riferimenti e numeri di telefono, far capire che le forze dell’ordine possono
essere anche una soluzione… Ma non è facile. E le strutture specializzate sono presenti solo nei
grandi ospedali. La cosa migliore, ripeto, è fornire i riferimenti telefonici delle strutture
specializzate (1522, centri antiviolenza, consultori, nuclei delle forze dell’Ordine dedicati alle
fasce deboli…)
6) Talvolta accade che ad accompagnare la vittima in pronto soccorso o dal medico di famiglia
sia proprio il carnefice. In tal caso il lavoro del medico diventa estremamente più
complesso…. Sì, ma anche qui è fondamentale la formazione. La prima cosa che ho imparato,
facendo i corsi sulla gestione della violenza, è stato di lasciar fuori gli accompagnatori. Cosa a
cui prima non pensavo. Per fortuna durante le visite non ero sola, avevo sempre il supporto di
un/una infermiere/a, questo mi permetteva di essere più “imperativa”…
7) Secondo la sua esperienza, statisticamente esistono fasce sociali maggiormente colpite da
violenza? No. La violenza è trasversale a tutte le fasce sociali e a tutte le condizioni culturali.
Piuttosto, ci sono situazioni che ne facilitano l’esplosione.
8) Dottoressa vogliamo ricordare che esiste anche una “violenza passiva” come quella che
subiscono ad esempio i bambini che assistono ad episodi di violenza nei confronti della
mamma? Lei parla della violenza assistita. E’ la seconda forma di maltrattamento dell’infanzia
più diffusa in Italia (la prima è la trascuratezza materiale o affettiva) Può avere conseguenze
molto gravi sullo sviluppo dei bambini di entrambi i sessi. E’ molto insidiosa perché può passare
inosservata, ma può danneggiare i bimbi in modo permanente. Gli effetti dannosi possono
essere a breve, medio e lungo termine. Le conseguenze possono essere un disturbo post
traumatico da stress, difficoltà relazionali e comportamentali, atti di bullismo e
delinquenza…Imparano a disprezzare le donne e le persone che ritengono deboli, ripetono da
adulti quanto hanno visto fare dal padre. Le relazioni affettive diventano relazioni di
sopraffazione. Il primo trattamento è interrompere le violenze che la madre subisce, ed è
indispensabile escludere l’affido condiviso nei casi di violenza assistita.
9) Qualora vi sia, fra i lettori di questa intervista, una donna che si riconosce fra le vittime
silenziose, quale consiglio si sente di suggerire? Telefonare al 1522. Mi verrebbe da dire
“recarsi al consultorio familiare più vicino”, ma in questo periodo di pandemia è tutto più
macchinoso. Mentre una telefonata, anche di notte, può essere più facile da fare. E ottenere gli
indirizzi cui rivolgersi, centri antiviolenza e quant’altro possa essere utile.