Associazione Amiche e Amici dell’Accademia di Medicina di Torino: un incontro sul tema “Comunicare diagnosi difficili”
di Piergiacomo Oderda
L’Associazione Amiche e Amici dell’Accademia di Medicina di Torino ha
organizzato Associazione Amiche e Amici dell’Accademia di Medicina di Torino sul tema “Comunicare diagnosi difficili” presso
l’Accademia di Medicina in via Po 18 a Torino e in modalità web. La
registrazione sarà disponibile a breve sulla pagina Facebook e sul canale
Youtube dell’Associazione. Simone Veronese riepiloga in un’intervista a Livia
Tonti di MD Digital il tema dell’importanza della comunicazione tra medico e
paziente, come comunicare le diagnosi difficili che aprono un percorso di cura
in cui non sia possibile portare a guarigione. Da alcuni anni, nelle Università si
cura quest’aspetto prevedendo esami e crediti specifici. Prima non si insegnava
come comunicare, i medici erano lasciati all’esperienza, al tirocinio, ai buoni maestri.
Per il dott. Veronese che lavora nelle cure palliative, si tratta di
un’esperienza quotidiana. A comunicare si impara, è un dovere per il medico
come sancisce il comma 8 dell’articolo 1 della legge 219/2017 (“Norme in
materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”). Il
tempo della comunicazione è tempo di cura. I medici sostengono di non avere
tempo, creando un conflitto tra legge e realtà concreta. «Abbiamo bisogno di
tempo per comunicare, ce lo dobbiamo ricavare per far bene un’attività
dovuta». Se si pensa di non essere portati alla comunicazione, ad ogni modo
non si può non comunicare. Se si tenta di sfuggire, si comunica che «non ce la
faccio a stare in questa relazione». Quando si utilizza il gergo medico che
rappresenta una barriera, ci si difende dietro parole difficili che hanno un senso
nella comunicazione scientifica ma che sottintendono che non si sta cercando
di arrivare al paziente. Illustra il protocollo “Spikes” nato in Oncologia negli
anni Novanta (R. Buckman). Ogni lettera riguarda un aspetto importante nella
comunicazione. Innanzitutto, è necessaria la cura del “setting”: dove si svolge
il colloquio? Non in una sala d’aspetto, in una camera d’ospedale con altre
persone o quando il paziente sta male! Bisogna eliminare le barriere, togliersi il
camice, sedersi accanto al paziente. Ci si deve chiedere cosa sa il paziente, che
informazioni ha. Fare domande, ascoltare per capire quanto quella persona
vuole sapere. C’è chi reagisce dicendo “a me questa informazione non
interessa, lo dica a mia moglie, mi fido di lei!”. Occorre dare informazioni
importanti per il percorso di cura, quelle che servono per costruire una
relazione in cui accompagnare il paziente. Si comunica la diagnosi, il
trattamento, la prognosi, il percorso di cura; può essere l’esito di una Tac o
addirittura un trattamento sperimentale, se vale la pena proporlo. E’
importante accogliere le emozioni, ci può essere il diniego, il rifiuto, la rabbia,
c’è chi minimizza il problema. Occorre dare un nome alle emozioni e creare il
“follow up”, «non ti abbandono, da adesso inizia il percorso». Esistono corsi
specifici se ci si rende conto di non essere in grado. Il titolare dell’informazione
è il paziente che può richiedere di avere qualcuno vicino. Anche il medico può
farsi aiutare da un collega, da un infermiere per ricevere un “feedback” pur
all’interno della procedura del consenso informato.