Omaggio a Marcel Proust
di Emi Tempesta
I libri sono troppo irrequieti per rimanere tranquilli su uno scaffale. Tendono a spingersi in avanti cercando la libertà. Quando lo leggi, il libro è ancora più agitato. Fugge dalla finestra e corre nei boschi.
(Ian McEwan, Intervista a Tuttolibri)
3 marzo – L’interrogatorio
La donna è seduta dietro una scrivania di noce scuro, il cui ripiano denuncia un ordine maniacale; pochi oggetti schierati l’uno con l’altro in perfetta simmetria ortogonale: un telefono weightless e un digit e-secretary di ultimissima generazione, un sottomano, un posalettere a due sezioni colmo di buste, un portapenne cilindrico con una sola stilografica, una sola penna a sfera, una sola matita, gomma e temperino, un’agenda con cerniera che completa il set di cuoio marrone. Sul ripiano della scrivania sono appoggiati anche un fascicolo di cartoncino verde e un quaderno scolastico con una copertina azzurra che copre l’intestazione del fascicolo. Il quaderno, sulla copertina, riporta la scritta a pennarello Autori vari in corsivo a grandi caratteri e bella grafia. La stanza ha un arredamento essenziale: illuminazione a spot con tre punti luce. Qualche stampa alle pareti con paesaggi campestri. Due sedie davanti alla scrivania. Un grande specchio, probabilmente di sorveglianza, su una parete accanto a un enorme armadio a vetri traboccante di spessi fascicoli. In alto da un angolo del soffitto una telecamera inquadra l’ambiente. La donna ha una quarantina d’anni, viso e naso affilati, nessuna traccia di trucco. Ha capelli lunghi, lisci, afflitti da un precoce e trascurato imbiancarsi, divisi da una riga centrale in due bande raccolte con uno chignon sulla nuca. È in attesa di qualcuno, le mani incrociate appoggiate sullo spigolo del ripiano, davanti al petto, come se pregasse. Il qualcuno bussa e la porta si apre – come evidentemente da prassi – senza che la donna abbia accennato a rispondere. Entra un vecchio, in manette, affiancato da un uomo in divisa che lo tiene per un braccio.
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– Agente tolga le manette al signor Corsini. Prego Corsini si accomodi. Io sono il giudice Angela Stroppiana. Do il via alla registrazione in audio e video. Innanzitutto devo ricordarle, se non ne è già informato, che lei non subirà un processo. Io deciderò ma non ci sarà alcun dibattimento. Quindi lei non si può avvalere di un avvocato difensore. Di fronte alle evidenze il nostro agile ordinamento ha abolito tutte le vecchie lungaggini. E gli intoppi burocratici. A maggior ragione nel caso di un’ammissione spontanea come la sua. Un processo sarebbe del tutto superfluo: una pura perdita di tempo… E non si illuda di poter ritrattare: la prima ammissione è quella che conta.
– Ma signora giudice non ho ancora avuto modo di spiegare…
– Io vedo qui dalla relazione di servizio che lei ha riconosciuto esplicitamente, di fronte a un agente capo e a un agente scelto, che il presente quaderno da me ammesso come prova contiene una raccolta. Lo identifica come suo?
– Sì certo, è il mio. Ma sono solo appunti, signora giudice, un lavoro di esplorazione letterario, come può vedere lei stessa.
– Vede Corsini, il nostro Ministero dell’Incentivazione al Commercio, approva le collezioni perché costituiscono un indubbio volano economico. Una collezione, soprattutto quelle d’arte, implicano un numero considerevole di pezzi che spesso vengono contesi dai collezionisti al di sopra di quello che può essere il loro stretto valore commerciale di base. Il quale valore proprio per questo aumenta col passare del tempo, o di mano in mano, e della passione che anima chi li raccoglie. Naturalmente è fatto assoluto divieto di scambio tra privati… intendo senza l’intermediazione di un professionista. Questi è il benemerito commerciante che spende tempo e fatica per mettere in contatto la domanda con l’offerta. Nel suo caso signor Corsini in che cosa sono consistite la domanda e l’offerta?
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– Mi spiace, signora giudice, temo di non seguirla: quale domanda e quale offerta?
– Il punto è proprio questo: nella sua raccolta non c’è stata domanda, non c’è stata offerta, non c’è stato nulla che abbia portato un utile al Paese. E questo è un reato, grave. Ma prima di pronunciare la sentenza… non ci vorrà molto glielo assicuro… mi faccia capire il senso della sua collezione. Potrebbe avere una qualche rilevanza istruttoria per il giudizio. Naturalmente se ritiene può avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma glielo sconsiglio.
– No, no… non vedo perché non dovrei rispondere.
– E allora mi dica… mi parli di questa sua attività strampalata, oltre che illegale.
– Vede signora giudice, come ho cercato di spiegare all’agente capo non si tratta di una vera collezione, io l’ho chiamata così tanto per dire. Avrei dovuto dire appunti letterari… un’antologia…
– Signor Corsini crede che le avrebbero messo le manette se avessero trovato degli appunti… come lei li definisce… letterari? Andiamo, non sia ridicolo: non è vietato prendere appunti. Ma lei stesso l’ha definita raccolta, non cerchi di negarlo o peggiorerà la sua situazione, dimostrando malafede…
– No, no signora giudice, io non lo nego, ma è stata una definizione impropria… un lapsus. Per questo sono stato arrestato. E ora non vorrete condannarmi per un lapsus.
– Io non voglio condannarla, non ho nulla di personale contro di lei. Io devo condannarla. Lei capisce che sono cose molto differenti. Per essere chiari, signor Corsini voglio spiegarle una cosa. Vede se io dovessi non tener conto del suo reato, e, dico per assurdo, la lasciassi tornare a casa, due minuti dopo sarei arrestata al suo posto e processata. Lei ha commesso un crimine e deve pagare. Se non pagasse lei pagherebbe il giudice che ha sbagliato, cioè la sottoscritta.
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– Mi sembrava di aver capito che i processi erano stati aboliti.
– Non per i giudici: giudicare un normale cittadino, nel suo caso anche reo confesso, è cosa da niente. Semplicissima. Ma con le accuse ai giudici bisogna andarci piano. La formazione di un magistrato costa cara allo Stato, molto cara. E prima di buttare alle ortiche questa pubblica risorsa bisogna essere certi di quello che è accaduto. Una garanzia insomma per il buon funzionamento della giustizia. E per tutti i cittadini onesti.
Il Partito degli Onesti, sostenuto dalla lobby dei commercianti, nelle ultime elezioni aveva conquistato il 72% sul 16% dei votanti. Il primo decreto legge del governo monocolore aveva dato poteri straordinari al primo ministro. L’annuncio aveva provocato disordini e proteste in tutta la Penisola. Le autorità tuttavia avevano ripristinato rapidamente l’ordine. Fonti ufficiose avevano denunciato più di trecento vittime già nelle prime 24 ore della rivolta. Ma il bilancio ufficiale per il Ministero della Repressione dei crimini era stato di tre agenti e 86 terroristi uccisi, tredici feriti tra le forze dell’ordine e nessuno tra i criminali. Gli arrestati, 1240, erano stati imbarcati su una nave traghetto con destinazione top secret. Meno di un’ora dopo l’uscita dal porto di Nuova Napoli la nave era stata scossa da un’esplosione che aveva aperto un grande squarcio a poppa affondando nel giro di venti minuti. Unici superstiti, il comandante e il capo commissario. La nave, per segrete ragioni di sicurezza, era stata privata di tutte le scialuppe di salvataggio, ma dotata di un passenger-elidrone. Il comandante e il capo commissario erano stati insigniti di medaglia d’oro al valore civile per essersi coraggiosamente attardati sul traghetto nel tentativo di organizzare i soccorsi per i prigionieri, le guardie di scorta e il resto dell’equipaggio. Una medaglia d’argento era andata invece, alla memoria, al primo e secondo ufficiale per essersi rifiutati di salire sull’elidrone con due posti vuoti ancora utilizzabili.
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Il secondo decreto aveva abolito la Costituzione e i codici scritti, affidando la riformulazione del tutto a un Comitato di dieci saggi che avrebbe dovuto rendere pubbliche le conclusioni entro sei anni. I risultati del lavoro rimasero invece segreti e appannaggio esclusivamente dei vertici del potere esecutivo e giudiziario. Insomma non divulgabili. I nuovi governanti, dopo aver preso il potere, avevano sostenuto di ispirarsi all’Antigone di Sofocle, nel voler rovesciare la logica di un’ottusa obbedienza ai codici scritti, sostituendola con una giustizia etica che sa discernere di caso in caso quale sia il bene dal male. È vietato uccidere? Si erano chiesti retoricamente i dieci saggi. Certo che lo è. Si erano risposti, essendo saggi, senza indugio. O vi è forse bisogno di costosi codici stampati in migliaia di copie che lo sanciscano? Hai ucciso per difenderti da un’aggressione in atto o presunta? Per questo non potrai mai essere condannato. Hai rubato in casa di un ladro? L’ottusa vecchia legge ti condannerebbe comunque. Il discernimento del saggio giudice moderno al contrario ti assolverà. Avete rubato dalla bancarella di un ambulante, in un negozio o in un supermercato, là dove la merce è esposta alla pubblica fiducia? Lo Stato da oggi ha smesso di sprecare risorse con inutili lungaggini processuali. Arresto immediato e trasferimento in una casa di punizione. In regime di lavori forzati. Non conta l’età o il sesso o la condizione economica. O se sei madre, padre o nonno. La durata della pena viene affidata al buon senso dei carcerieri. Così, avevano spiegato i saggi, gli altri disonesti ci penseranno due volte prima di ripetere simili imprese. E avevano garantito: Ci si può scommettere che i furti ai danni dei bravi commercianti caleranno in un battibaleno ed entro pochi anni questo tipo di reato sarà solo un vago ricordo.
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– Allora Corsini, mi parli un po’ di questi che lei chiama impropriamente appunti.
– Va bene, come vuole signora giudice… Ascolti queste poche righe di quella che io considero la massima opera letteraria di tutti i tempi. E noti la musicalità dei due tratti, quello di andata e quello speculare di ritorno: Facchini in scarponi rotolavano con cupi tonfi barili fuori dai magazzini Prince e li ammonticchiavano sul carro della birreria. Sul natante della birreria si ammonticchiavano con cupi tonfi barili rotolanti dai facchini in scarponi fuori dai magazzini Prince. Non la trova geniale?
– Per la verità non si capisce niente…
– Signora giudice, è l’Ulisse…
– Certo, lo so: il protagonista dell’Odissea.
– Sì… ma intendo quello di Joyce.
– Ah quello, sì certo. Ma cosa vuole dimostrare citando la storia dei facchini rotolanti?
– È un presupposto importante per rispondere alla sua domanda. Volevo arrivare a spiegarle in che modo i romanzi abbiano occupato la mia vita e come per me siano diventati un indispensabile nutrimento dello spirito.
– Continui allora, mi faccia capire.
– Forse l’annoierei, è sicura di volermi ascoltare?
– Corsini se mi annoierà glielo farò sapere. Vada avanti.
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– D’accordo signora giudice. Faccia attenzione a queste altre pennellate di Joyce: Il suo sguardo pesante e pietoso assorbì l’informazione. Travolti in dogliosi lagni, in vortice avvolti, vorticosi, si lagnano. Nessun ulteriore disfacimento disfarà una prima disfatta. È grazie a Joyce signora giudice che ho scoperto i momenti più magici della letteratura. I momenti che più mi affascinano. E detesto chi continua a spargere il luogo comune, magari senza averlo mai preso in mano, che l’Ulisse sia noioso e illeggibile. Ascolti ancora se questa non è una musica sublime: In sella ai cavalli di testa, caracollanti cavalli di testa, cavalcavano i battistrada. E più avanti il miracolo che avvolge il protagonista Leopold Bloom, in contemplazione del mare che lo contempla a sua volta. Con Joyce ho scoperto la grande capacità di alcuni scrittori di trascendere la sintassi, la grammatica e soprattutto convenzioni e logica del mondo reale. Da quel momento – avevo 22 anni – ho deciso di raccogliere.…
Qui l’imputato ha un’esitazione. Si tace. I suoi muscoli antero laterali del collo mollano l’ormeggio che manteneva eretta la testa. E nell’istante necessario al capo per piegarsi in avanti, il pensionato ammette con se stesso di non poter più scampare al laccio della legge. Per la seconda volta in 24 ore ha “confessato”, di essere un collezionista fuorilegge. Gli sternocleidomastoidei acconsentono a risollevare il pesate fardello, concordando sul fatto che tutto il corpo debba riassumere davanti alla giudice un atteggiamento dignitoso.
– Mi scusi signora giudice. Stavo dicendo che da quel momento ho deciso… sì… di raccogliere i gioielli più preziosi dei romanzi. Io non colleziono francobolli, orologi o piantine grasse. Colleziono prodigi narrativi: entità che sono chiamate ad adoperarsi in arti ben più complesse di quelle per cui esistono in natura. Come il mare contemplativo di Joyce o seicento pagine prima un orologio bilioso. E persino come una fogna, puzzolente: un manufatto comunque rispettabile, che raccoglie e incanala laboriosamente gli escrementi umani, ma capace di speculazioni filosofiche. O come due semplici pronomi dimostrativi usati da Robert Musil nell’Uomo senza qualità: un ciò che incalza nella stesura di un romanzo per essere espresso dallo scrittore. E un ciò che credi di aver ottenuto e che invece ha ottenuto te. Mi segue signora giudice?
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Angela Stroppiana, le labbra leggermente dischiuse, gli occhi spalancati, osserva e ascolta sbalordita le ragioni del vecchio che osa fronteggiarla indifferente alla gravità e alle conseguenze di quanto va affermando. Finché il richiamo dell’imputato la riporta alla sua funzione:
– Sì… certo, la seguo… vada avanti. Ma sappia che lei non sta alleggerendo la sua posizione. Tutt’altro.
– Me ne rendo conto signora giudice. Me ne rendo conto, ma non ha più importanza. Giacomo Debenedetti, grande estimatore di Proust, scrisse che il miele è nella gola del leone e che bisogna andare a carpirlo anche a costo di lasciarci le dita.
Circa un anno dopo la schiacciante vittoria elettorale il governo aveva varato un provvedimento affidato a un team di tecnici di alta professionalità nel campo elettronico perché lo rendessero praticabile. Denominato Scacco matto, il sistema integrato, negli intenti del Ministero dell’Incentivazione al Commercio, istituito in intesa con i Ministeri della Giustizia e della Repressione dei crimini, prevedeva che a tutti i nuovi prodotti industriali o artigianali non usa e getta o di consumo immediato (quindi esclusi ad esempio gli alimentari), si applicasse un microchip che li localizzassero attraverso il nuovissimo apparato satellitare NMGPS (New Multi Global Positioning System). Ogni individuo poi, a partire dai tre anni, doveva essere dotato di un bracciale elettronico collegato anch’esso all’NMGPS. Con questa duplice connessione le autorità di polizia avrebbero potuto localizzare latitudine e longitudine di tutti i cittadini in qualunque momento e il posizionamento degli oggetti acquisiti al primo indirizzo registrato dal satellite. E successivamente gli oggetti si sarebbero potuti spostare per più di un mese dal primo indirizzo catalogato unicamente previa autorizzazione dalle autorità competenti. La rottamazione degli oggetti si sarebbe potuta realizzare soltanto tramite smaltimento nei cestini pubblici elettronici o nei centri di raccolta rifiuti o tramite il fine uso presso un ufficio autorizzato. Uno spostamento abusivo, senza rientro alla base di partenza, dopo il mese canonico avrebbe fatto scattare un allarme nelle centraline di controllo e il conseguente accertamento da parte delle forze dell’ordine. I prestiti, anche per una sola ora di qualunque oggetto, non importa se un accendino o uno yacht, erano comunque espressamente e severamente vietati e sanzionati. Chi aveva bisogno di qualcosa doveva comprarlo in un negozio o noleggiarlo.
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La progettazione del complicato sistema richiese cinque anni e prevedeva una spesa, tra costi materiali e parcelle dei progettisti, di 15 miliardi di world. Che in corso d’opera diventarono 21. Le azioni della BTS Innovative Technology Solutions, che aveva vinto l’appalto sul progetto, schizzarono alle stelle. Centuplicando il loro valore. La copertura economica venne realizzata con un rialzo di un punto dell’Iva e con un’apposita accisa sulle ricariche elettriche degli elidroni. Lo scopo ambizioso della titanica duplice impresa era di eliminare la criminalità e al contempo incentivare il commercio.
Era previsto un avvio sperimentale che avrebbe coinvolto diecimila volontari e soltanto una trentina di prodotti contenuti nel paniere dei prezzi al consumo. Il meccanismo avrebbe poi dovuto raggiungere il pieno regime entro cinque anni. Il giorno del taglio del nastro venne organizzata una cerimonia nella Sala Italia di Palazzo Madama, con la partecipazione di tutte le maggiori autorità politiche, militari e religiose. Al culmine della cerimonia, in diretta tv sul TG100.0, l’Onesto Premier pigiò il suo dito indice della mano destra su un apposito pulsante e sul display si accese una luce verde: il via libera accolto da uno scrosciante applauso. Il verde rimase acceso per meno di 10 secondi, 9 per l’esattezza e qualche decimo, poi si trasformò nella luce rossa che indicava un malfunzionamento. Di tutto il faraonico sistema la luce rossa fu l’unica cosa che continuò a funzionare. Furono spesi altre decine di milioni per ripristinare la luce verde, ma senza successo e, mentre le azioni della BTS Innovative Technology Solutions diventavano carta straccia, nessuno parlò più di Scacco matto.
– Signora giudice, lei dice che ho confessato. Confesso anche di essere un ladro. Marcel Proust, Joseph Roth e tanti scrittori, hanno creato dei prodigi e io me ne sono appropriato: mani pesanti che si sentono superflue, palazzi che tollerano con impassibile indifferenza i commercianti ai loro piedi…
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– Questa poi…
– Cosa vuole, qualcuno un tempo era arrivato a giudicare il commercio un furto legalizzato: i bottegai… chiedo scusa… i commercianti… non sono sempre stati rispettati come lo sono ai giorni nostri. Tempo fa per uno snob – lo scrive Proust – una signorina, per il fatto stesso di essere figlia di un commerciante era degna di minor attenzione…
– Ma questo è assurdo, Corsini stia attento a come si esprime. La sua posizione è già abbastanza delicata.
– Dunque sei arrivata a pensare che la borghesia, i droghieri, i commercianti grossi o piccoli, i mercanti siano degni di fiducia, come se non fosse stato provato tante e tante volte che ti dissanguerebbero senza pensarci due volte.
– Come si permette di darmi del tu? La denuncio per oltraggio.
– Ma no, signora giudice, stavo solo citando Joel Oppenheimer; 17-18 aprile 1961 è il titolo della poesia da cui è tratto il brano che le ho appena riferito. È uno poeta della Bleak Mountain, siamo nell’orbita della Beat Generation, ha presente? the dream is over, america.
– La definizione arte degenerata calza perfettamente agli esempi che mi sta facendo.
– Non mi fraintenda signora giudice. Personalmene non ho nulla contro i commercianti, ci mancherebbe: se non esistessero i librai non saprei proprio dove andare a comprare i miei amici più cari. Soprattutto da quando avete dichiarato illegali anche le pubbliche biblioteche.
– Lei dunque gli amici se li compra in libreria.
– Non ho altro modo…
– Corsini lei si è guadagnato una nuova incriminazione: oltraggio al commercio. Ora basta con queste scempiaggini. Risponda con precisione alle mie domande. Quanti pezzi contiene la sua collezione?
– 352 signora giudice.
– Ma qui in questo quaderno ce ne saranno al massimo… vediamo… ecco qua…118.
– È l’antologia degli autori vari. Ne ho un’altra, monografica sulla Recherche.
– L’ha nascosta, vero? Mi dica subito dove.
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Angela Stroppiana è diventata magistrato dopo aver superato brillantemente il concorso pubblico. Unica tra i 350 ammessi agli orali a riportare un 54 come voto totale nelle tre prove scritte di Diritto civile, penale e amministrativo. E prima classificata anche nel voto finale. Nella sua città, durante gli anni del liceo era stata tra i fondatori e più ferventi animatori nel Gruppo Giovanile Ordine e Lealtà che si opponeva alla componente Studenti democratici. Questi ultimi erano strenui oppositori della Riforma universitaria che stava rivoltando come un calzino le strutture accademiche, sostanzialmente istituzionalizzando quelle che durante le rivolte a metà del XIX Secolo venivano denominate baronie. Angela Stroppiana sapeva che la riforma non le avrebbe portato vantaggi personali, ma era tuttavia convinta che i princìpi che stabiliva fossero etici, utili e produttivi. Scavando un fossato difficilmente valicabile tra gli uomini al potere e chi pretendeva di intaccarne i giusti privilegi e limitarne l’operatività con una scalata personale ideologica di stampo sovversivo. Con l’imputato Corsini si trova per la prima volta ad affrontare il caso di una raccolta illegale, seppur anomala. Convinta della necessità di colpire questo tipo di iniziative. E neppure per un momento ha pensato di lasciarsi sfuggire l’occasione di creare un precedente giuridico che probabilmente farà scuola. Decisa a punire il comportamento di quel vecchio ribelle nel modo più severo applicando anche le sanzioni accessorie. Confermando ad esempio la confisca della pensione, a partire dal giorno stesso dell’arresto, che sarebbe stata inglobata dall’Istituto Previdenziale dei Commercianti, per incrementare le reversibilità della categoria in favore dei coniugi superstiti.
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– Senza offesa signora giudice, ma preferisco che il mio lavoro rimanga in un posto sicuro. Se vuole dare un senso a quello che le ho appena raccontato, provi ad allargare per un attimo la sua visuale. Voi ci offrite solo desolazione e pretendete che i cittadini diventino tutti raccoglitori seriali di oggetti che dimenticano per sempre posandoli su uno scaffale polveroso o seppellendoli in fondo a cassetti stracolmi di inutilità. Io trovo molto più gratificanti i minuetti dei miei amici scrittori. Che mi fanno dimenticare le vostre facce, le vostre incursioni nella vita della gente, i vostri soprusi, lo squallore quotidiano che ci imponete. Solo così posso fingere che lei, l’Onesto Premier, i suoi sbirri e ciascuno di voi non sia mai esistito. È il mio passatempo signora giudice e mi dichiaro colpevole. Mi faccia portare via, per favore. Non credo che abbiamo altro da dirci.
Il pensionato Corsini si sente molto più tranquillo di quando è stato arrestato. Ma se il suo stato d’animo dovesse evocare l’aggettivo rassegnato, ebbene non sarebbe quello giusto. Sereno piuttosto, o per dirla con l’aiuto di una locuzione aggettivale, in pace con se stesso.
Il giorno precedente
Il giorno precedente il pensionato Corsini aveva tardato, come al solito, a prendere sonno. Stava sfogliando un quaderno che custodiva gelosamente in un comparto segreto di un mobile costruito con le sue mani e che neppure il più abile dei suoi ex colleghi falegnami sarebbe stato in grado di individuare. La sua fedina penale immacolata gli consentiva di subire una sola perquisizione al mese e l’ultima era stata effettuata nelle 24 ore precedenti. Ciononostante alle 2 e 40 qualcuno aveva bussato violentemente alla porta intimando di aprire. Il pensionato Corsini sapeva di non poter prendere tempo, perché 30 secondi dopo la serratura sarebbe stata comunque fatta scattare con un comando elettronico universale e la polizia avrebbe fatto irruzione all’interno. Ma sapeva anche di aver bisogno di più di 30 secondi (il massimo concesso per non incorrere nel reato di resistenza a pubblico ufficiale) per buttarsi giù dal letto, raggiungere la scrivania, smuovere l’incastro, riporre il quaderno, richiudere, arrivare alla porta e comporre sul display il codice per l’apertura. Dunque aveva infilato il quaderno tra due libri in uno scaffale della camera da letto, non in evidenza, ma neppure nascosto. Raggiunta la porta, aveva respirato due o tre volte profondamente, e composto il codice. La serratura dunque era scattata al 25° secondo dopo il primo robusto colpo inferto sulla porta.
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– È permesso vero signor Corsini?
– Certo, avanti, ma mi avete perquisito ieri. Era proprio necessario disturbare un povero vecchio per due notti di fila? Io ho la fedina pulita e mi era stato detto che ho il diritto di essere perquisito non più di un volta al mese…
– Corsini lei dovrebbe sapere come tutti i cittadini diligenti che una volta al mese significa solamente non più di 12 volte all’anno. Ma la frequenza la decidiamo noi.
– No, francamente non lo sapevo.
– Beh, l’ignoranza della legge non è una gran bella prova di diligenza civica, ma non è neppure considerata un reato. Noi siamo comprensivi con i cittadini onesti. Comunque prima cominciamo e prima ce ne andiamo.
Cinque agenti si erano sparpagliati nelle stanze iniziando una perquisizione identica a quella della notte precedente. Alla fine della quale il pensionato Corsini sapeva che avrebbe impiegare un paio d’ore per rimettere tutto in ordine. In corridoio, si erano trattenuti il padrone di casa e l’agente capo che aveva iniziato l’interrogatorio di routine:
– Qualcosa da dichiarare?
– Proprio nulla, signor agente capo.
– Bene, ecco, le ho portato la lista aggiornata dei generi di oggetti che bisogna detenere con le minime quantità. Di quante paia di scarpe dispone?
– Me lo hanno già chiesto ieri signor agente capo…
– Signor Corsini due perquisizioni consecutive, effettuate da squadre differenti, servono proprio a rimediare agli eventuali difetti operativi trascurati nel primo intervento. È una garanzia a tutela degli stessi cittadini. Quindi non si deve stupire se si sentirà fare le stesse domande. È la prassi. Allora avanti risponda, se non ha nulla da nascondere.
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– Due paia per l’estate e due per l’inverno. E il minimo consentito.
– Sì esatto, ma vorrei darle un consiglio.
Qui l’agente capo aveva abbassato il tono della voce
– Non è la prima volta che ci vediamo e nutro una certa simpatia nei suoi confronti. Non ci ha mai dato fastidi e il suo comportamento è ineccepibile, ma tra dieci giorni andrò in pensione e verrò sostituito. E allora vorrei metterla in guardia. Gli ufficiali di polizia più giovani – e qui l’agente capo aveva fatto un segno con la testa come a indicare in direzione della camera da letto – sono… come dire… meno elastici e accondiscendenti. E allora per stare con un buon margine dalla parte della ragione… ascolti il mio consiglio: non si tenga stretto alle minime quantità, si tenga più largo. Venga con me in cucina e mi faccia controllare: quante forchette, quanti cucchiai e quanti coltelli possiede?
– Quattro per ogni tipo e quattro cucchiaini, quattro bicchieri, quattro piatti piani, quattro fondi…
– Sì, sì, ho capito. È proprio questo che va e che non va… Raddoppi le quantità, mi ascolti. Del resto semmai volesse invitare a cena un gruppo di amici come farebbe?
– Non ho più parenti agente capo e non invito mai nessuno né a pranzo né a cena, a parte il mio dirimpettaio, una volta ogni tanto. Per un boccone assieme prima di una partita a Pinnacola.
– Insomma lei non mi vuole intendere. Allo Stato non gliene importa nulla se lei invita o non invita qualcuno a pranzo o cena. Allo Stato interessa che lei dimostri partecipazione fattiva alla circolazione della valuta. Quanti calzini ha?
– Tre paia: uno lo porto ai piedi, uno lo tengo in un cassetto e uno lo lavo e lo metto ad asciugare.
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– E le costerebbe tanto comprarne un altro paio, o un paio di tazzine in più per il caffè?
– Agente capo io non bevo caffè: già così non dormo. E poi, lo vede, tutto quello che posso lo spendo in libri…
– Ma così favorisce il libraio e discrimina il negozio di casalinghi, che tra l’altro è proprio accanto al suo portone. E se il proprietario viene da noi a lamentarsi sul suo conto non c’è di che sorprendersi.
– Bormioli si lamenta di me?
– Io non le ho detto nulla. Comunque ho inteso: lei si rifiuta di capire. Mi faccia vedere il suo certificato di reddito.
– Vado a prenderglielo.
Il pensionato Corsini si era allontanato tornando con una cartellina colma di fogli.
– Dovrebbe essere qui… eccolo… 420 al mese.
– Come mai così poco?
– Non ho figli, a ottobre scorso sono rimasto vedovo e l’impiegata dello sportello dell’istituto di previdenza mi ha dimezzato la pensione.
– L’impiegata? Sta scherzando? Mica possono deciderlo gli impiegati di ridurre le pensioni.
– Oh sì che possono farlo. Tutto è iniziato molto, molto tempo fa. Adesso possono. Me l’ha fatta pagare perché qualche mese prima l’avevo mandata a quel paese. Mi aveva chiesto come mai ero già in pensione a 75 anni e senza neppure aspettare la spiegazione aveva borbottato che i pensionati sono peggio delle locuste.
– E lei l’ha mandata a quel paese?
– Più precisamente le ho detto che poteva andare a farsi fottere… se mai avesse trovato qualcuno disposto a sacrificarsi. Glielo assicuro, non è il mio linguaggio abituale, ma proprio non ce l’ho fatta a stare zitto.
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– Capisco. E lei non ha fatto ricorso contro il taglio della pensione?
– Certo che l’ho fatto. La lettera dell’avvocato mi è costata 150 world, ma me l’ha respinta.
– Chi?
– L’impiegata.
– Ma il ricorso va presentato al tribunale amministrativo.
– Signor agente capo mi scusi ma su questa materia non è ben informato. Se il ricorso è contro un ente pubblico va presentato allo sportello dello stesso ente. Dicono che è una semplificazione che va a tutto vantaggio dei cittadini.
– Ed è stato respinto?
– L’impiegata gli ha dato un’occhiata…
– Sempre quella di prima?
– Sì, sempre lei. Gli ha dato un’occhiata, gli ha messo il timbro Respinto e me l’ha restituito.
– Ah, capito. Forse non è stata una buona idea farsela nemica.
– No, decisamente. Ma come le ho detto è stato più forte di me.
– Va bene… torniamo a noi. Guardi qui su queste mensole: due o tre vasetti da quattro soldi, qualche statuetta, tre cornici con foto…
– Ottocentoquaranta al mese non erano tante. E adesso quattrocentoventi…
– Mio padre non guadagnava più di quanto guadagnava lei, ma le assicuro che in casa aveva ogni bendidìo, come è tenuto a fare il cittadino solerte. Del resto me lo ha già detto: i soldi lei li spende solo in libri.
– Sono i miei compagni di vita da quando ero bambino.
– Sì, vedo, è solo questo signor Corsini che la salva da un accusa di sabotaggio del commercio… A proposito, viste le ristrettezze economiche, lei adesso ha dei libri o altri oggetti in prestito?
– Andiamo agente capo, no di certo. Mi crede così stupido? So che è vietato.
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– È un’altra domanda di prassi, caro Corsini. Prassi obbligatoria… Lei è ben informato e non è uno stupido. Altrimenti… in confidenza… non glielo avrei chiesto. Ma non ha idea di quanti, presi alla sprovvista, rispondono di sì. E poi sostengono che ignoravano il divieto.
L’agente scelto Massimo Zanchini, addetto alla camera da letto che ospita una delle librerie del piccolo alloggio, è considerato quasi unanimemente scrupoloso e intelligente. Ed è destinato a sostituire il suo capo, quando andrà in pensione. Un’espressione letta sul viso del padrone di casa all’apertura della porta lo ha indotto ad aumentare al massimo il livello d’attenzione nella ricerca. Mentre nel corridoio era in corso l’interrogatorio, lui stava scorrendo visivamente le centinaia di libri, per la maggior parte romanzi, ma anche saggi, cataloghi, manuali, allineati sugli scaffali. Ogni tanto ne estraeva uno a caso, sfogliando rapidamente le pagine per cercare eventuali fogli nascosti e lasciandolo poi cadere in terra. La prassi non glielo imponeva ma glielo consentiva. Per non perdere tempo. Se poi il perquisito avesse avuto un atteggiamento non collaborativo allora nulla avrebbe vietato che venissero sventrati materassi e cuscini, tagliate la fodere dei vestiti, scaraventate in terra le stoviglie, rovesciati i cassetti, le confezioni di pasta, il sale, lo zucchero e così via. Il pensionato Corsini per parte sua non dimostrava agli agenti un’aperta antipatia. Così, quando avessero lasciato la casa avrebbe soltanto dovuto preoccuparsi di rimettere al loro posto i libri e di riordinare i cassetti. Del resto lo stesso lavoro che gli era toccato 24 ore prima.
All’agente scelto Zanchini era però balzato agli occhi il quaderno riposto tra una serie di romanzi di Matt Danielson. Si era reso conto dell’accuratezza con cui il padrone di casa allinea i libri sugli scaffali: ordinati per lingua originale e ciascun settore in ordine alfabetico e ancora di grandezza. E ciascun libro, come da obbligo, con la ricevuta d’acquisto nominativa pinzata nella prima pagina interna. Quel quaderno gli sembrava occupare un posto “fuori ordinanza”. Lo aveva aperto a caso leggendo mentalmente qualche riga. Poi aveva mormorato tra sé e sé: Che roba è questa? E a voce alta:
– Capo venga un po’ qui a vedere…
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Il pensionato Corsini aveva provato un tuffo al cuore. Seguendo l’agente capo che si stava spostando in camera da letto. L’agente scelto Zanchini stava scuotendo il quaderno, l’apertura verso il basso, tenendo il lato rilegato tra indice e pollice della mano destra per far cadere eventuali fogli liberi. Quindi aveva aperto un’altra pagina a caso leggendo ad alta voce.
Capo, senta qui: – I libri volano e cadono morti durante un eccesso di furia di un gigante incompreso (Daniel Pennac, La Prosivendola). Uno sfollagente promosso penna a sfera, alias l’ispettore praticante Carrega (Daniel Pennac, Il Paradiso degli orchi). I mobili e le suppellettili di Miluzza parlavano precipitosamente fra loro (Domenico Rea, Ninfa plebea). Tutto numerato e con l’aggiunta degli editori e del numero di pagina. Che diavolo significa?
– Nulla agente, sono miei appunti letterali. È soltanto una raccolta di situazioni romanzesche paradossali…
Il pensionato Corsini aveva compreso di aver detto una parola di troppo. Tradendosi. Aveva sempre tenuto nascosto il quaderno perché sapeva che le collezioni, qualunque sia il genere degli oggetti che ne fanno parte, anche virtuali, sono consentite solo se ogni pezzo viene acquistato in un negozio o a un’asta. Con ricevuta fiscale. E a nulla vale il fatto che possa trattarsi, come nel suo caso, non di oggetti materiali, ma di frasi, parole, concetti astratti. Lo sapeva, eppure il suo cervello gli aveva giocato un brutto scherzo facendogli pronunciare la parola raccolta. E l’agente capo aveva drizzato le orecchie.
– Raccolta? Zanchini, fai un po’ vedere…
Ora il quaderno era nelle mani del responsabile della perquisizione. Che per il pensionato Corsini nutre effettivamente simpatia. E se avesse potuto sarebbe stato persino disposto a chiudere un occhio di fronte a una leggerezza, ma il reato che si profilava era grave e soprattutto era presente quello che lui ha sempre considerato un ruffiano all’ennesima potenza: l’agente scelto Zanchini.
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Anche l’agente capo aveva aperto una pagina a caso:
– La notte ne sapeva più del giorno sul conto di Thenardier (Victor Hugo, I Miserabili). L’idea scartò, con un’alzata di spalle, l’ideatore (Hector Bianciotti, Ciò che la notte racconta al giorno). La pietra volonterosa opponeva resistenza se si cercava di obbligarla a qualcosa che non voleva (Ken Follet, I pilastri della Terra). E questa sarebbe una raccolta? Di che cosa?
– No infatti signor agente capo, non volevo dire raccolta, ho proprio detto una sciocchezza, sono appunti letterari…
– Crede di farci fessi? Era intervenuto Zanchini. Ogni frase è preceduta da un numero. Eccome se è una raccolta: una raccolta che non gli è costata un centesimo.
– Zanchini – lo aveva interrotto l’agente capo bruscamente – dì la tua quando ti viene richiesto.
Quindi aveva ripreso a leggere
– Dunque… Un colore verde ronzante… Una matita gialla e un blocco per stenografare aspettano sul tappeto il momento per entrare in funzione… Una lettera fedele e devota… È soltanto una sequela di cose senza senso. Non sarei così certo che si tratti di una raccolta.
– Se non ne è certo, allora forse è il caso di chiedere l’opinione di un giudice. O lei non crede capo? È lei che deve decidere.
– Appunto Zanchini, sono io e ti ripeto che non ho bisogno della tua opinione. Mi spiace Corsini, ma deve seguirci al commissariato. Si può portare una borsa con qualche indumento di ricambio e qualche effetto personale. Prenda anche un libro se ritiene. E non si dimentichi una maglia di lana, la notte nelle celle fa freddo.
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Ritorno al 3 marzo e alla stanza dell’interrogatorio
Dal momento dell’arresto è passato un solo giorno. Il pensionato Corsini si alza a fatica e porge i polsi alla guardia. Ma la giudice ordina: – Agente, dietro la schiena.
Il pensionato Corsini, mentre viene ammanettato, fissa in volto la giudice. Sa che anche questo è un atteggiamento improprio. Non lo ha mai fatto nel corso di tutto l’interrogatorio. Angela Stroppiana tenta di rispondere alla sfida con uno sguardo che vorrebbe essere indignato. Vorrebbe dirgli come si permette, ma poi decide che non è il caso. Che è meglio far finta di nulla e lasciar perdere. E allora abbassa lo sguardo fingendo di avere un’incombenza urgente. Pone il quaderno dentro il fascicolo Corsini e lo ripone in un cassetto, da cui estrae una cartellina con un altro nominativo.
– Allora cosa aspetta agente? Lo porti via e porti dentro il prossimo imputato. Addio signor Corsini.
La guardia spinge il pensionato che, una volta sulla soglia, si volta:
– Signora giudice…
– Sì, cosa c’è ancora?
– I libri sono troppo irrequieti per rimanere tranquilli su uno scaffale. Tendono a spingersi in avanti cercando la libertà. È colpa loro, dei libri, che pretendono di essere prestati.
– Cosa significa? Cosa diavolo significa è colpa dei libri?
– Siamo in tanti.
– A far cosa? A vivere di sogni e utopie?
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– Forse. Anche. A scambiarci libri, volevo dire, siamo in tanti.
Angela Stroppiana ha un sussulto.
– Intende confessare anche di aver violato la legge fino a questo punto? Vi scambiate libri? È inconcepibile!
– Come le ho già detto, sono i libri che ce lo chiedono. In quanto a confessare, l’ho fatto proprio adesso: siamo decine di persone. È un gruppo organizzato, con casalinghe, studenti, giovani operai, pensionati come me…
– Lei… lei sta… sta sche-scherzando – per la prima volta in vita sua Angela Stroppiana ha balbettato, paonazza in volto e fuori di sé tra l’indignazione e l’eccitazione. – Agente lo riporti qui. Metto tutto a verbale: mi dia nomi e indirizzi e verso di lei avremo un occhio di riguardo.
– No signora giudice, non ho altro da aggiungere. Non mi risiederò davanti a lei se l’agente non mi costringe. Non farò nessun nome e non darò indirizzi. Non dirò niente di niente. Volevo solo che lei lo sapesse.
– Non sia sciocco, le sto dando una chance, una via di uscita. Li prenderemo tutti comunque e se lei agevola le indagini… le ripeto, avremo un occhio di riguardo. Sarei autorizzata a patteggiare un fine pena. E in via del tutto eccezionale potrei anche restituirle il suo stupido quaderno.
– Oh no che non li prenderete. Siamo ben organizzati e stia tranquilla che non scoprirete mai neppure un nome.
– Potremmo raddoppiarle la pensione…
– Agente mi porti via.
– Corsini… – adesso la voce della giudice varia il timbro, da materno, o piuttosto mellifluo, a minaccioso –: abbiamo dei metodi per farla parlare. Sono pochi quelli che resistono. Lei, glielo garantisco, confesserà nomi, cognomi e indirizzi, dal primo all’ultimo. E non ci avrà guadagnato nulla. Non ci costringa. Tanto vale che venga qui da bravo e mi racconti tutto. Vedo che ha un’ottima memoria: ci può dare tanto materiale prezioso per combattere i sabotatori dell’economia. Le posso anche garantire che i suoi complici non sapranno mai che è stato lei a denunciarli.
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Il pensionato Corsini pare fermarsi a riflettere. Poi il suo volto è attraversato da un accenno di sorriso e sembra accettare la resa.
– In questo caso qualche nome glielo posso anche fare.
– Bene, vedo che è una persona ragionevole. Agente via le manette. Si sieda, signor Corsini. E iniziamo subito dai nomi dei correi. Il resto me lo riferirà con calma.
Il pensionato Corsini si siede e inizia a dettare.
– Felek Tartaruga.
– Felec con la ci?
– No, Felek con la kappa.
– Uno strano nome.
– Già.
– Vada avanti.
– Vladek
– Anche lui con la kappa? È uno straniero?
– È un contrabbandiere polacco… Sono tutti e due polacchi.
– Tutti e due polacchi? E che ci fanno in Italia?
– I contrabbandieri, suppongo.
– Il cognome di Vladek?
– Conosco solo il nome. Io le dico quello so.
– Bene, vada avanti con gli altri.
– Elegantone.
– Si chiama così?
– Esatto.
– Signor Corsini, per caso mi sta prendendo in giro?
– Il vento fa finta di non vedere Vladek, Lord, Lovka, il Topo, Bolek Cometa, Inanka, Mammut, Felek Tartaruga ed Elegantone. Vedo che lei non ha letto l’Amante dell’Orsa Maggiore. Se lo tolga dalla testa, io non farò nomi e non dirò una parola in più di quelle che ho già detto. E adesso agente per favore mi porti via davvero.
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La giudice ora è perentoria
– Sì agente, mi tolga una buona volta dai piedi questo vecchio insolente che tra qualche giorno avrà perso la voglia di scherzare.
L’epilogo – 23 marzo
Venti giorni dopo è una giornata piovigginosa, un uomo con un ombrello aperto lo socchiude in verticale quanto basta per passare attraverso il portone che ha fatto scattare con l’impulso di un radiocomando, riaprendo senza apparente ragione l’ombrello una volta all’interno. Ha un cappello con visiera calata sul volto e il colletto dell’impermeabile alzato. Fa qualche passo e lascia una busta chiusa nella cassetta delle lettere dell’amico dirimpettaio del pensionato. Dentro c’è un micro impianto fonico con registrazione di un file audio e l’indicazione dettagliata del luogo dove è stato seppellito il corpo di Corsini. Subito dopo l’uomo torna in strada e si allontana a passo veloce sparendo dietro il primo angolo.
Ancora due settimane e la città viene invasa di manifestini anonimi che annunciano per il giorno dopo, alle ore 9, la cerimonia laica al camposanto monumentale per i funerali di una vittima della violenza cieca del potere. Il prefetto invia nelle strade adiacenti al cimitero uno schieramento massiccio di agenti in tenuta antisommossa, tutti in attesa sui blindati e pronti a intervenire. Mentre a pochi metri di altezza due droni armati di lacrimogeni volano in circolo incessantemente sul perimetro del piazzale. Sul posto, un attimo prima deserto, alle 9 in punto cominciano a confluire uomini, donne, ragazzi e vecchi da ogni direzione. Hanno tutti le mani alzate che impugnano un libro, alcuni un quaderno. In pochi minuti il grande piazzale è stracolmo di gente. Mezz’ora dopo ci sono dieci, forse ventimila persone. Difficile calcolarne il numero. Il responsabile sul posto dell’ordine pubblico, man mano che la folla cresce, si mette in collegamento radio con la centrale per descrivere la situazione e chiede istruzioni ai suoi superiori.
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Il prefetto viene aggiornato di minuto in minuto: chiede a sua volta istruzioni al Ministero della Repressione dei crimini e il ministro chiede al papà, l’Onesto Premier in quel momento impegnato con la sua preferita. Questi non ha tempo da perdere e dice al figlio di regolarsi come crede. Il giovane, alle prese con la sua Ferrari, d’epoca, Portofino in un testa a testa semaforico con una Ducati Combat, commette un errore: – Ritirate i droni e gli agenti antisommossa, lasciamo che sta pagliacciata finisca spontaneamente.
Il quaderno degli autori vari, sequestrato durante la perquisizione, fu recuperato nella fossa in aperta campagna dove era stato gettato accanto al corpo del pensionato, per spregio o forse per pietà (metteteci anche questo, aveva detto uno dei torturatori agli incaricati della sparizione del cadavere, il vecchio ci teneva a riaverlo). Sul posto non pioveva da mesi e nel terreno argilloso l’opuscolo si era conservato senza troppi danni. Il secondo quaderno, monografico, su Proust fu ritrovato un anno dopo i funerali e il rovesciamento del regime, nel suo alloggio sotto un listello a incastro del pavimento, nella Primavera del 2056, durante l’allestimento della Casa Museo Gian Domenico Corsini.
Commento all’antologia
(29 minuti di lettura)
1
di G.D. Corsini
Nelle mie antologie sugli scrittori si parla di avvenimenti che trascendono l’ordine naturale delle cose. E che hanno come protagonisti (evidenziati nel testo) dei semplici manufatti o prodotti della Natura: un poggiapiedi di seta, delle tende, una finestra, alberi, soprattutto fiori, un palazzo, dei campanili o una casetta, il cielo, il Sole, la sua luce, i suoi raggi e le sue ombre, la nebbia, uno pneumococco, una frase musicale, un tovagliolo, un odore, tanti odori, tanti ricordi; ma anche condizioni, episodi, situazioni, stati d’animo, un’attività corporale (sì anche quella considerata più tabù) o sensoriale, un processo chimico, un fenomeno fisico, un’attitudine umana, tutto ciò (anche due dozzinali ciò, pronomi dimostrativi antroporformizzati da Robert Musil) che viene impropriamente animato dalla fantasia degli scrittori. In paradossi spinti ai confini più estremi dell’inventiva e ospitati per questo con gioia tra i “trofei” della mia caccia. Ma presentando l’antologia dedicata specificatamente a Marcel Proust e alla Ricerca del tempo perduto devo prima assolvere un obbligo: chiedere scusa. Spiegherò più avanti il perché.
Pietro Citati scrisse (La Colomba pugnalata, sottotitolo Proust e la Recherche, Arnoldo Mondadori Editore) che si tratta di un’immensa sinfonia, dove ogni motivo ritorna a distanza di centinaia o migliaia di pagine e si intreccia con gli altri in un’architettura musicale inestricabile. Altri critici l’hanno definita un’opera mondo, un’enciclopedia, una cattedrale, un monumento filosofico, una grande avventura umana e tanto altro ancora. Giacomo Debenedetti, che scriveva i primi saggi su Proust a partire dal 1925, quando Le Temps retrouvé non era ancora pubblicato, volle classificarla come Un’immensa istruttoria di un geloso, riferendosi a un ambito specifico dell’ambizione filosofica, psicologica e letteraria dell’autore. Lui stesso in un’altra circostanza ha magistralmente sintetizzato in poche righe, la magica capacità dello scrittore di incantare i suoi appassionati lettori. In Rileggere Proust, saggio del 1946, scrisse: Fu colui che meglio ci diede l’illusione di essere venuto a manifestare tutte le cose che a noi urgevano sulla punta della lingua, ma non le sapevamo articolare. L’illusione, ancor più, di aver trovato il segreto, la formula magica per rendere sensibile attraverso le parole ciò che dentro di noi si agitava informe e nostalgico di luce – ma di una particolare luce, tuttavia, che rispettasse anche l’ombra – insomma l’incognita psicologica e sensibile, quella della nostra personale equazione con la vita, che tutti abbiamo sulla punta della lingua ma che si dilegua non appena tentiamo pronunziarla.
2
Quel che è indubbio infatti della Recherche è che si tratti di un universo esplorativo della psiche e dell’animo umano, incentrato per gran parte sulle sue debolezze, meschinità, inganni e autoinganni. Sentimenti che meglio di ogni altro caratterizzano il comportamento sociale della razza animale classificata come più evoluta e nello specifico di quella che era in Francia la casta dominante nel corso della Belle Époque.
Un pot-pourri di nobili più o meno decaduti e di ricchi borghesi che, mentre sullo sfondo i lavoratori del popolo sono guardati con disprezzo per il fatto stesso di essere affaccendati nelle umili attività quotidiane indispensabili alla sopravvivenza, si impegnano quasi a tempo pieno e senza esclusione di colpi nella “guerra” per accaparrare ai loro salotti le personalità più in vista. Una gara affidata alle armi taglienti della lusinga, del disprezzo, della calunnia, della menzogna, dell’inganno, del tradimento, di parole che non dicono, di sguardi che strillano e di apparenze senza costrutto. Le generalesse e i generali di questo conflitto, nello strategico imbastire degli intrecci interpersonali, sono virtuosi insuperabili nell’uso di un’arma paralizzante a danno degli occasionali interlocutori: la gelida indifferenza mascherata da repentina cecità o sordità. O, quando non basta, la pura scortesia; quando invece è il caso, sfoderando l’ospitalità più amabile, che comunque quasi mai esprime i reali retropensieri. Con inclusioni ed estromissioni che di volta in volta provvedono a selezionare la formazione migliore da schierare in una soirée o come platea di una matinée. Il tutto nella cornice di un galateo fitto di regole imperscrutabili e inchini improbabili, con scenari a tratti irresistibilmente esilaranti. Nell’ultimo volume la mondanità è sorpresa dalla guerra, quella vera, che tuttavia rimane sullo sfondo della vita dei gaudenti, a Parigi e in provincia, senza guastar loro troppo la festa. Come Toulouse Lautrec dipinge, così il suo contemporaneo Marcel Proust racconta con lucidità, e a tratti con feroce sarcasmo, il “dietro le quinte” di una grottesca commedia umana.
3
Centottanta pagine, nella Strada di Swann, sono dedicate alla gelosia per Odette de Crécy del più noto personaggio della Recherche, che dà il titolo al primo volume; altrettante sono dedicate nella Prigioniera alla soffocante, se vogliamo malata o ridicola o codarda, a seconda della prospettiva di chi legge, gelosia dell’io narrante (che non necessariamente coincide con lo scrittore) per Albertine. Il protagonista poi, nel Tempo ritrovato, divaga per 208 pagine, tra i pensieri, che accompagnano l’attesa in anticamera prima di essere ammesso a una matinée nel palazzo dei Guermantes, e le successive impressioni che gli fanno gli altri invitati: tutti conoscenti che non vedeva da lustri e che trova irriconoscibilmente trasformati dalla deformante maschera della vecchiaia. Altre grandi pagine sono dedicate dal sublime perditempo (come è stato definito lo scrittore) alle intermittenze del cuore, quei soprassalti che si presentano alla mente come doni della memoria involontaria, o per dirla con Joyce, le epifanie, che gli consentono di ritrovare (vedi la celeberrima madeleine, la piccola frase di Vinteuil o i campanili di Martinville) una sensazione, un nome, un sapore, un tema musicale, un rumore, un colore, un oggetto solo apparentemente banali. Ebbene a dispetto di ciò, nel Tempo ritrovato Proust respinge un’altra definizione, che gli è stata affibbiata, di rovistatore di particolari che usa come strumento di indagine un microscopio. Spiega infatti di non aver usato un microscopio, bensì un telescopio, per scorgere cose piccolissime, sì, ma perché situate a grande distanza e ciascuna delle quali costituivano un mondo. Il risultato è un insieme di saggi o più brevi introspezioni che scandagliano la mente umana fino alle sue bassezze più imbarazzanti.
4
Giovanni Macchia, in Proust e dintorni, riporta un commento di Alfred Humblot, rappresentante della casa editrice Ollendorf, che per terza in ordine di tempo respinse il manoscritto: Sarò forse duro di comprendonio, ma non posso capire come un tale possa impiegare trenta pagine per spiegare come egli si giri e si rigiri nel suo letto prima di addormentarsi. Eppure, in seguito, moltissimi altri hanno capito. E hanno assistito, come di fronte a un miracolo – letterario, si intende –, all’incipit più famoso della storia della letteratura (Longtemps, je me suis couché de bonne heure) e alle successive pagine tanto disprezzate da Humblot. Un miracolo che per milioni di lettori ha nutrito la prima spinta a proseguire nella lettura, senza più volersi fermare. Settantacinque anni dopo l’invenzione di quell’incipit, Enrico Medioli, sceneggiatore di C’era una volta in America, fece rispondere Sono andato a letto presto da Robert De Niro, nei panni di Noodles, al suo amico Fat Moe che gli chiedeva che cosa avesse fatto negli ultimi trent’anni. Per molti una delle battute più azzeccate (azzeccata sì, ma purtroppo rubata) della storia del cinema.
Si sbaglierebbe chi pensasse che tutta la mole di lavoro analitico dello scrittore si cristallizzi alla fine unicamente nella fotografia di un irripetibile momento storico e sociale; perché gli strumenti di indagine che l’artista regala al lettore lo arricchiranno della capacità di leggere in falsariga anche la propria attualità, il proprio inconscio e di svelare i pensieri nascosti in certe affermazioni e atteggiamenti, comprendendo meglio l’intima natura di ciò che appartiene alla sua esperienza. Proust rivendica questa qualità della sua narrazione quando, nel Tempo ritrovato, afferma: In realtà, ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è solo una specie di strumento ottico offerto al lettore per consentirgli di discernere ciò che forse, senza quel libro, non avrebbe potuto intravedere in se stesso.
5
Soprattutto per questa ragione nutro per Proust una grande riconoscenza. Secondariamente, inutile negarlo, perché il suo lavoro ha rappresentato un nutrimento inesauribile della mia esplorazione letteraria. I protagonisti di quest’opera monumentale, al pari dei personaggi maschili e femminili, sono spesso gli oggetti. A cui il narratore attribuisce, voce, pensieri, consapevolezza, saggezza e intenzioni. Così dove per gli altri scrittori è una deroga attribuire alla materia inorganica parole, gesti e sentimenti, per Proust è la norma. Con poche eccezioni. Fino a divenire un canone letterario che, portato alle estreme conseguenze, ci svela nel più profondo l’anima delle cose. Nella Strada di Swann spiega: Poiché credevo alle cose, agli esseri, mentre le percorrevo, le cose, gli esseri ch’esse m’hanno fatto conoscere sono i soli che io prenda ancora sul serio e che mi diano ancora qualche gioia. Per Proust le cose contengono e conservano nel tempo un’essenza nascosta che dà un celeste nutrimento all’io di chi sa svelarla. E aggiunge: L’arte non è sola a porre incanto e mistero negli oggetti più futili: quel medesimo potere di metterli in rapporto intimo con noi è devoluto anche al dolore.
In letteratura come nel cinema, i personaggi principali, i figuranti e le comparse appaiono nei loro rispettivi ruoli in funzione della trama. Ci sono i buoni, i cattivi, i metà buoni e metà cattivi, le figure non indagate dagli autori, quelli di puro contorno e così via. E ci sono, come è ovvio, gli oggetti inanimati che hanno generalmente (fanno eccezione i fantasy e i cartoni) un ruolo di presenza tecnica o di puro arredamento. L’illusionista britannico Nevil Maskelyne, autore di numerosi libri sulla magia, fra i quali The Art in Magic, pubblicato nel giugno del 1908, doveva avere un rapporto molto conflittuale con gli oggetti, visto che in quel saggio (anticipando la successiva legge attribuita a Edward Alysius Murphy) era arrivato a scrivere: Tutto quello che può andare storto lo farà, imputando la responsabilità degli eventi negativi alla malvagità della materia e alla totale perversione delle cose inanimate.
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Basterà scorrere i brani della presente antologia per rendersi conto che il Proust narratore, al contrario di Maskelyne, ebbe con gli oggetti un rapporto tutt’altro che conflittuale. Per la stragrande maggioranza delle volte infatti essi osservano, o agiscono, senza interferire nella vita dei personaggi. In alcuni casi si dimostrano amici. In pochissimi altri appaiono ostili, come, per citare qualche esempio, le celebri tende rosa, una poltrona, un poggiapiedi e le lampade di un albergo. Più avanti, nell’antologia, è facile verificare questo dato.
Ma per comprendere appieno il rapporto intimo tra Proust e le cose, più di tutto possono aiutare due testimonianze dirette dell’atteggiamento dello scrittore in altrettante particolari circostanze. Entrambe sono riferite da Mario Lavagetto nel saggio Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, Torino, 1991. Nella prima Reynaldo Hahn, compositore e amico intimo dello scrittore, racconta che durante una passeggiata, di fronte a un cespuglio di rose del Bengala, Marcel si bloccò pregandolo di lasciarlo solo. Hahn fece un lungo giro e al suo ritorno lo trovò nella stessa posizione, la testa inclinata, il volto grave, come se ricevesse un messaggio che tentata di decifrare. Nella seconda Ramon Fernandez, scrittore, giornalista e critico francese, spiega come durante una visita di Proust nella sua casa, dove non aveva mai messo piede, i suoi occhi si incollarono letteralmente ai mobili, alle tende, ai soprammobili: guardava tutto come un medium che ricevesse messaggi invisibili dalle cose.
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Nella mia selezione ho applicato su tutti gli scrittori il rigido criterio che esclude i pezzi resi inadatti da locuzioni, verbi o avverbi o qualunque altro espediente linguistico teso a moderare gli azzardi narrativi; ho escluso insomma quelli “difettosi”, come fa il filatelico con i francobolli che hanno la dentellatura rovinata o la colla non integra. Intendendo per “difettoso” – sia detto con tutto il rispetto dovuto all’arte letteraria – un brano che appoggia il cimento descrittivo sul supporto di un verbo dubitativo (sembrare, parere, far pensare a), o di un avverbio di maniera (come, similmente), di una locuzione prepositiva (a guisa di, quasi che, in certo modo), o di un sostantivo di comparazione (una sorta di), o ancora un inopportuno, per le mie esigenze di esploratore, tempo condizionale (si sarebbe detto che) o anche soltanto di una excusatio non petita (si può ben dire che). Anche l’uso delle virgolette, con funzione di distanziamento, come quelle che ho appena incollato poche righe qui sopra alla parola difettoso, rendono il brano inutilizzabile. Nelle primissime pagine dei Guermantes ad esempio Proust scrive: ...mi sentivo penosamente rigonfio a causa di un lungo armadione che la mia vista non aveva ancora “digerito”. Le virgolette contrassegnano un’espressione di tipo metaforico. Vuol dire questo che le metafore nella mia caccia sono depennate? Lo sono soltanto se lo scrittore le indica esplicitamente come tali. Per fare un altro esempio, se Joseph Roth (il secondo autore in ordine di importanza come produttore di prodigi, seguito da Elias Canetti, Robert Musil e James Joyce), anziché scrivere di mani che si toccano sul piano del tavolo, per subito allontanarsi l’una dall’altra con autonomi sentimenti di vergogna, avesse scritto di mani che si toccano sul piano del tavolo, per subito allontanarsi l’una dall’altra quasi avessero autonomi sentimenti di vergogna, il brano non sarebbe stato incluso nei risultati dell’esplorazione per “difetto di affermazione” o, se preferite, di “audacia”. E all’opposto se Proust anziché i garofani nei vasi sembravano spiare attenti l’apparizione tardiva della padrona di casa, avesse scritto i garofani nei vasi spiavano attenti l’apparizione tardiva della padrona di casa, questo brano, sarebbe stato accettato, anziché escluso, a tutto titolo assieme agli altri.
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A proposito dell’esempio che ho appena fatto sulle esigenze di un filatelico ci tengo a sottolineare, nel modo più assoluto e rigoroso, che quella di cui sto parlando non può essere definita né in alcun modo considerata una collezione o raccolta. Lo dico, non tanto perché queste siano espressamente vietate dalle attuali leggi dello Stato se non ha concorso la mediazione di un commerciante che abbia ricavato un utile nella compra vendita dei singoli pezzi, ma perché lo spirito con cui ho compiuto la mia caccia non è quello di un collezionista, quanto piuttosto di un qualunque lettore accanito che vive dei libri e dei loro dettagli: le copertine, l’odore, le trame, il senso degli avvenimenti descritti, i sentimenti che ne emergono, financo i punti, le virgole e, soprattutto nel mio caso, i punti e virgola. E di conseguenza non possa fare a meno di estrarre e appuntare le minuzie e i particolari che più lo conquistano.
Anche una persona che in vita sua abbia letto soltanto lettere commerciali o manuali d’uso di elettrodomestici, saprebbe riconoscere l’intrusione del fantastico nel reale come licenza artistica. Roth confida nella dinamicità delle menti. E tuttavia, ogni tanto, lui come altri scrittori, come lo stesso Proust, sembrano colti da una sorta di pudore, quasi a pentirsi di quelle che forse giudicano licenze artistiche troppo numerose, volendone dunque proporre alcune come pure metafore, esplicitandole dietro un come o un pare o un sembra. Ahimè, in questi casi la cautela rende i brani inservibili per la mia ricerca; ma così sia: i narratori non possono essere certo costretti dalle esigenze di un esploratore folle a rivendicare in ogni occasione e a ogni costo una natura selvaggia ribelle al conformismo di maniera.
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Con la Recherche ho dovuto poi affrontare un problema. Dalle mie antologie ho sempre escluso, oltre come è scontato il filone fantastico, il mondo della poesia, perché entrambi generi connaturati all’irreale. La poesia, meglio ancora la lirica, richiede, di più, pretende, uno svolgimento con una forte carica suggestiva ed emozionale; per questo nessuno si stupisce se i cipressi alti e schietti balzano incontro a Carducci e lo guardano e se il poeta recita: sorelle foglie vi ascolto nel lamento; o se Pascoli fa sussurrare i pioppi del Rio Salto. Tutto quanto è lirica non può essere dunque accolto in un insieme di avvenimenti che violano le leggi dell’ordinarietà. Perché nella lirica sono ordinari essi stessi. Tuttavia nella Recherche prosa e lirica si inseguono e incrociano per tutto il percorso artistico.
Dalla mia camera buia, con un potere di evocazione uguale a quello di un tempo, ma apportatore solo di dolore, sentivo che fuori, nella pesantezza dell’aria, il sole declinante tingeva d’un colore fulvo la verticalità delle case, delle chiese.
La parete a vetri era traslucida e blu, di un blu di corolla, di un blu d’ala d’insetto, di un blu che mi sarebbe parso tanto bello se non avessi inteso ch’era l’estremo riflesso, tagliante come un acciaio, il colpo supremo che il giorno, nella sua infaticabile crudeltà, ancora mi inferiva.
…ci si ricorda di certi giorni di estate apparsici troppo caldi quando li vivemmo e dai quali, soprattutto a distanza di tempo, si estrae, senza impura lega, il metallo d’oro fino e di indistruttibile azzurro.
Si tratta di tre brani della Recherche. Prosa eccelsa, pura lirica o prosa contaminata dalla lirica? Chi può pretendere di classificarli a ogni costo? Sta di fatto che sono entrati di diritto nei risultati della mia esplorazione tutti i brani, distillati da 3340 pagine, in cui Proust viola l’ordinarietà delle cose.
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Ora chi avrà ventura di leggere, chissà, prima o poi, questa antologia, giudicherà – e non posso dargli torto – che estrarre dall’universo proustiano 234 singoli brani fuori dal contesto narrativo risulta di fatto un’operazione a dir poco irrispettosa. E poco, quasi nulla, posso ribattere a quest’accusa; devo pertanto chiedere perdono allo scrittore e ai suoi estimatori. Ho letto i sette volumi della Ricerca la prima volta da adolescente, a partire per puro caso dal primo, comprato su una bancarella, prima di accorgermi che ce n’erano altri sei. Li ho percorsi tutti, in un lampo. Ma ero troppo giovane per potermi appropriare di tutti i suoi frutti. Mi era parsa soltanto una sublime autobiografia: apparenza ingannevole. L’ho riscoperto in età adulta, ricompletando la lettura, sbalordito per le novità che vi trovavo. E in questa circostanza ho sottolineato tutti i passaggi letterari che più mi colpivano, le immagini poetiche, quelle più ironiche, gli aforismi. E visto che da anni avevo preso l’abitudine di estrapolare dai romanzi le fughe dalla realtà e dal conformismo narrativo, l’ho fatto anche in quella circostanza. Purtroppo ho smarrito, non so come, non so dove, forse prestati e mai rientrati, forse in un trasloco, La strada di Swann e All’ombra delle fanciulle in fiore che possedevo nelle edizioni degli Struzzi Einaudi. E con essi le sottolineature e gli appunti che contenevano a bordo pagina. Mi sono così proposto di rileggere prima o dopo, con questi due volumi, tutta la Recherche. Per la terza volta. Ma sono passati decenni. Quando l’ho fatto sono rimasto risbalordito dal fascino di questo immenso capolavoro. Come se precedentemente non l’avessi già letto e riletto. Scherzi della memoria? Probabile. Ma la ragione più vera è che la Ricerca del tempo perduto, come tutte le opere di levatura, ad ogni successiva lettura è in grado di offrirsi con nuove e sempre più emozionanti chiavi interpretative.
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Il ripetuto utilizzo in questa mia nota di aggettivi al superlativo può risultare stucchevole, ma se il superlativo non si addice a Proust, autore per altro di uno dei romanzi più lunghi di sempre, allora tanto varrebbe cancellarlo dai valori lessicali. Ed è opportuno a questo proposito chiarire che Marcel Proust non ha attraversato soltanto momenti di gloria. Lo hanno criticato anche illustri personaggi come Croce, D’Annunzio e Prezzolini; dopo la sua scomparsa, il 18 novembre 1922, l’elogio è diventato apologia; nell’immediato dopoguerra la critica è degenerata in denigrazione. Fino al riconoscimento, pressoché unanime, che perdura ai nostri giorni, della sua maestria. Arrivando a fare dello scrittore un proverbio di larghissimo consumo (Giacomo Debenedetti, Commemorazione di Proust, saggio pubblicato per la prima volta su Il Convegno, 1928).
Qualcuno potrebbe osservare che nella Recherche c’è più di un qualcosa che appare malsano: l’aperta misoginia del narratore, la sua morbosa attenzione a una presunta maggior disponibilità sessuale delle popolane, la rappresentazione sordida dell’omosessualità, con la condanna ossessiva nei confronti dell’amore lesbico e appena un po’ più indulgente nei confronti di quello tra uomini. A costoro va ricordato che i sette volumi dell’opera percorrono la vita di un personaggio di invenzione, il narratore, e soltanto in parte quella dello scrittore: esistenze che si incrociano in modo occasionale.
Il narratore per sole due volte e per dichiarata comodità viene denominato Marcel. Come quando un giornalista per preservare l’anonimato del protagonista minorenne di una storia di cronaca nera scrive: Chiamiamolo Franco; il che non gli impedisce di chiamarsi Franco lui stesso. Ma non si può neppure pretendere di ignorare la complessità del tema separando chirurgicamente il narratore dall’autore. Ancora Piero Citati scrive: Dobbiamo essere attenti. In quella voce unica stanno nascoste due persone, fuse nello stesso involucro: Marcel il Narratore, e Marcel Proust, l’”Autore di questo libro”, che ogni tanto si distacca invisibilmente dal primo Marcel, e, dietro le sue spalle, fa un piccolo cenno, che ci spalanca un orizzonte diverso. Nulla è più facile che sbagliare, confondere le due voci, e fraintendere il significato del libro. Se vogliamo capire, dobbiamo avere nella memoria l’intera Recherche e tutti i personaggi e i paesaggi e i motivi e le immagini e le parole, che formano un solo intreccio.
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È anche vero che la discussione inestricabile e tutt’ora irrisolta sul rapporto tra l’io narrante e Proust non può essere rescissa con una semplice negazione e una traumatica amputazione. In un altro suo saggio Giovanni Macchia (L’angelo della notte, edizione Rizzoli) riporta una notizia, che lo stesso critico precisa non aver mai trovato conferma, secondo cui, alcuni giorni prima di morire, Proust, tra gli spasimi dell’asfissia, continuando a dettare, avrebbe chiesto di integrare, con ciò che egli, moribondo, provava in quel momento, l’episodio della fine di uno dei suoi personaggi, Bergotte, non a caso celeberrimo scrittore. Quasi – commenta Macchia – che egli intendesse in tal modo scrivere, sopra dati d’esperienza, la storia della propria morte: disperato tentativo per utilizzare quanto, poco tempo dopo, sarebbe andato disperso, perduto, morto per sempre. Un indizio da ascrivere alla tesi di chi tra i critici voleva a ogni costo classificare la Recherche come un’autobiografia? Fu interminabile la polemica dello scrittore con il critico Sainte-Beuve e il suo metodo per la valutazione delle opere letterarie, basato sullo studio minuzioso della vita degli autori e autodefinito presuntuosamente scientifico e oggettivo. L’opposizione di Proust a questo metodo fu condotta in modo virulento, financo eccessivo. Ma la più efficace confutazione è tutta contenuta in una sola frase, ancora una volta della Recherche: La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura.
Per quanto riguarda il mio modestissimo parere, ritengo che non si possa attribuire a Proust un atteggiamento misogino o autolesionisticamente omofobo, più di quanto non si possa incolpare Ovidio per non aver esplicitamente condannato ogni orrore che descrive nelle sue Metamorfosi: dallo stupro, all’incesto, all’infanticidio, al cannibalismo. Se poi qualcuno altro affermasse che Proust, nella sua vita reale, non è mai stato un esponente d’avanguardia di quell’orgoglio omosessuale oggi punito come un crimine… non potremmo certo dargli torto.
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Al di là di queste considerazioni tematiche, tutta l’opera ha assunto ai miei occhi una sacralità che mi ha indotto a riflettere sulla selezione che avevo portato a termine. Scalpellare un’opera d’arte isolando dal suo insieme dei singoli brani somiglia alla profanazione del turista barbaro che si appropria per ricordo di frammenti in un sito archeologico. Ma l’oltraggio ormai è fatto. E non saprei come altro porvi rimedio se non motivare il mio irrispettoso passatempo con la premessa che avete appena letto. In conclusione lasciatemi affermare che, se apprendessi che la lettura del presente lavoro ha invogliato anche soltanto una persona che non lo ha ancora fatto ad affrontare la Recherche, questo mi farebbe sentire meno colpevole.
Utile fare un accenno ai personaggi principali, tra i circa quattrocento dell’intera Ricerca. Ne ho evidenziati una trentina che si incontrano nella lettura dei brani dell’antologia. La famiglia del narratore è composta dal padre, dalla madre a cui è legato da un amore lancinante, dall’adorata nonna Bathilde, dal nonno Amédèe, dallo zio Adolphe, dalla zia Léonie e anche da quell’incredibile caratterista, a tutto titolo da considerarsi di famiglia, che risponde al nome di Françoise. Prima cuoca a casa di Léonie, poi governante e tuttofare in casa del narratore. Fra quelle mura lei si sente regina incontrastata – e in parte lo è – che crede di sapere tutto, di conoscere tutto e soprattutto di intuire tutto. E in parte è vero. Il narratore è esasperato dai suoi giudizi, lasciati intendere o espressi a mezze parole, sulle sue frequentazioni, soprattutto amorose. Cerca di smentirli, ma inutilmente. Perché ogni convinzione di Françoise è granitica: dal valore o meno degli individui, alle ricette di cucina, ai massimi sistemi. E allora il narratore, pur ammettendo che si tratta di una rappresaglia ignobile, la umilia ogni volta che può spiegandole che la lingua in cui si esprime è un pessimo francese guastato dall’influsso dialettale. Ma Françoise è inossidabile. Del resto nessuno potrebbe mai sognarsi di sostituirla, in quanto istituzione di famiglia. Famiglia che si piega, tutta, a una sua condizione non trattabile: lei è disponibile a ogni ora del giorno e della notte, per tutto quanto è necessario, ma durante la prima colazione non udrà nessuno scampanellio di chiamata dei padroni. Nessuna cosa al mondo, neppure se la casa andasse a fuoco, potrebbe indurla ad alzarsi dal tavolo attorno al quale è riunita con il resto della servitù.
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Legrandin è un ingegnere, amico di famiglia, re degli snob che sostiene di disprezzare. Gilberte, figlia di Charles e Odette Swann, amore platonico nell’infanzia del narratore, sposerà Robert de Saint-Loup, duca di Guermantes. Odette è un’ex prostituta, grande amore di Charles Swann: questi è un vicino della famiglia del narratore, borghese colto e raffinato; un altro dei personaggi principali di tutta la Recherche. Oriane di Guermantes, ennesima infatuazione del narratore che si espone al ridicolo per soddisfare l’ossessivo bisogno di incrociarla per strada “casualmente” tutti i giorni durante la passeggiata della nobildonna. Presto scoprirà che è sì dotata di cultura, ma che è una maldicente patologica. La signora Verdurin, borghese milionaria, riunisce tutti i mercoledì un petit clan nei suoi salotti che gestisce con poteri totalitari di inclusione o di esclusione (che equivale alla morte sociale). I mercoledì in casa Verdurin sono un rito sacrale. E quando un appartenente al piccolo clan, amico da una vita, muore non metaforicamente ma per davvero, la padrona di casa non esita a rinnegarne amicizia e stima pur di non disdire l’appuntamento settimanale. In una circostanza analoga il duca di Guermantes per non rinunciare a una festa in maschera definisce un’esagerazione la notizia della morte di un parente. Ammettendo come reale il luttuoso evento solo a festa finita. Il marchese di Forestelle è amico di Swann. La marchesa di Gallardon è una parente dei Guermantes. Il marchese di Cambremer, detto Cancan, è un gentiluomo normanno condannato a portare in giro un naso storto che lo fa apparire di una stupidità grossolana. E non dà effettivamente prova di grande facoltà di intendere. Trova molto divertente che il narratore soffra di soffocazioni come la propria sorella, e non perde occasione, anche in sua presenza, di farne oggetto di conversazione e spasso. Sull’argomento, viene spiegato, si sbellicava, non per cattiveria, ma per la stessa ragione per cui non poteva veder cadere uno zoppo o parlare con un sordo senza mettersi a ridere.
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La marchesa Renée-Élodie di Cambremer, moglie del marchese, colta e intelligente, disprezza Chopin ma in compenso ammira Wagner e Debussy. La signora marchesa Zélia di Cambremer, poiché tutte le donne di classe sono tenute ad ammirare al massimo grado un compositore, un pittore o uno scrittore, a dispetto della marchesa Renée-Élodie ammira Chopin e Manet, che poi sostituisce con Monet. Cottard, medico famoso, ma non per questo capace, presenza goffa nei salotti, durante un viaggio in treno per piaggeria nei confronti di una principessa chiama il capotreno per cacciare dalla prima classe un contadino che non aveva trovato posto in terza. Noto per la sua codardia, Cottard in tutto il romanzo ha un solo momento di ardimento, quando la moglie Léontine entrando in un salotto viene ignorata e lasciata in piedi da alcuni sgarbati nobiluomini e lui la invita perentoriamente a sedersi con loro forzando la implicita volontà dei presenti di escluderla dalla conversazione. Il marchese di Norpois è un ex ambasciatore, nonché amante della marchesa di Villeparisis. Costei è zia dei Guermantes e, bontà sua, dipinge fiori. Vinteuil, professore di pianoforte, è autore della celebre sonata che affascina Swann. Bergotte è uno scrittore riconosciuto e stimato dal narratore. Elstir, figura del pittore ideale, secondo il narratore, come Vinteuil per la musica e Bergotte per la letteratura. Albertine Simonet è una delle fanciulle in fiore: il narratore se ne innamora carnalmente e si strugge di gelosia per una sua più probabile che presunta inclinazione bisessuale. Il motivo conduttore del loro rapporto amoroso sono le contorte elucubrazioni che portano il narratore, stretto nella morsa di un soffocante desiderio di possesso, ad applicare nei confronti dell’amata una tattica di accerchiamento psicologico che la rende sostanzialmente prigioniera. Dissimulando i propri pensieri con la puntuale esternazione dell’esatto contrario e tentando di smascherare quelli dell’amata e i presunti tradimenti con improbabili tranelli che dovrebbero farla cadere in contraddizione. La falsità e la menzogna – si giustifica il narratore – erano in me un’istintiva difesa; istintiva forse, ma come si vede nel corso del romanzo del tutto fallimentare.
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Albert Bloch è un borghese, parigino, ebreo, compagno di scuola e amico del narratore; la loro sincera amicizia viene compromessa da un rifiuto del narratore ad allontanarsi dallo scompartimento del treno, dove è seduto con Saint-Loup, Albertine e un gruppo di nobiluomini e nobildonne, per andare a salutare poco più in là il padre di Bloch, Salomon. L’amico naturalmente si addolora per lo sgarbo e il narratore preferisce fargli credere che il suo rifiuto sia stato dettato dallo snobismo piuttosto – come in effetti è – dalla gelosia che gli impedisce di lasciare anche soltanto un istante Albertine in compagnia dell’affascinante Saint-Loup. Andrée, amica di Albertine, è la più grande (di età) delle fanciulle in fiore. Il narratore si innamora anche di lei, ma le dice di non amarla e che l’avrebbe amata se non avesse conosciuto Albertine. Spera così che Andrée, sentendosi svincolata da un legame sentimentale, si renda sessualmente disponibile nei suoi confronti. Piano che ancora una volta deraglia miseramente. Charlus, barone de Guermantes, alias duca di Brabante, nonché donzello di Montargis, Monsignore e principe di Oléron, di Carency, di Viareggio, delle Dune – per gli amici più semplicemente Palamède o Mémé – altro protagonista di primo piano del romanzo, omosessuale, colto, raffinato, sadomasochista. Per il narratore, fa discorsi quasi da folle, ma il lettore constata in almeno un episodio che, oltre a essere per alcuni versi geniale, folle Charlus lo è per davvero, quando chiede al narratore di convincere Bloch a organizzare una messinscena divertente in cui dovrebbe bastonare il proprio padre e frustare la madre. Del resto di folli nella Recherche ce n’è più d’uno. In un episodio un fattorino intrattiene il narratore parlandogli della sorella: Sapete – dice – è una gran signora mia sorella. È molto intelligente. Non lascia mai un albergo senza fare un bisognino in un armadio, o in un comò, per lasciare un piccolo ricordo alla cameriera che dovrà pulire. Qualche volta lo fa persino in carrozza e, dopo aver pagato la corsa, si nasconde in un angolo, a godersi gli strepiti del cocchiere che deve lavare la carrozza.
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Tornando a Charlus, è prima anti dreyfusista acceso, poi dopo aver orecchiato da due nobildonne conoscenti occasionali che contro il capitano imprigionato sull’Isola del Diavolo in fondo non ci sono prove cambia idea e diventa dreyfusista arrabbiato. Charles Morel, violinista virtuoso, bello, amante di donne e uomini, tra cui Charlus, capace di gesti di infame perfidia per bramosia di guadagno, figlio del valletto di zio Adolphe, si vergogna del lavoro del padre (che Charlus definisce un orrendo domestico coi baffi) e per non sfigurare nei salotti scongiura il narratore di mentire in proposito con la signora Verdurin. Charlus e Morel sono protagonisti di uno degli episodi più surreali dell’intera Recherche, quando il barone decide di spiare il violinista all’interno di un bordello di lusso per controllare a chi si accompagni: seguono pagine degne della più incalzante commedia degli equivoci, a metà strada tra farsa e tragedia. Brichot, pedante professore alla Sorbona, parla troppo per esibire la propria cultura scagliando addosso ai suoi sfortunati interlocutori pile di dizionari. La signora Sazerat, frequentatrice dei salotti bene, è una delle rare non ebree dreyfusiste. Il professor Pierre è un docente, esperto della Fronda, frequentatore dei mercoledì dai Verdurin. La signora Loiseau è proprietaria di una sartoria e possiede delle birichine fresie fucsia. Aimé è il direttore dell’Hotel di Balbec dove il narratore è solito trascorrere le vacanze; non c’è un solo aggettivo, verbo o nome che pronunci senza storpiarlo. Può sentire cento volte al giorno pronunciare un termine in modo corretto: lui continuerà inesorabilmente a deformarlo.
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Si tratta, come avrete notato, per la quasi totalità di esponenti dell’aristocrazia, della altissima e media borghesia, o di artisti; con l’eccezione di Françoise e di pochi altri. Questo significa che soltanto i ricchi e potenti sono partecipi in qualche modo alla magia di Proust? Nient’affatto. Innanzitutto i veri protagonisti, come spiegavo all’inizio, sono oggetti o soggetti chiamati a fare un “mestiere” diverso da quello per cui esistono. E quando nel prodigio sono coinvolte persone in carne e ossa, per la maggior parte delle volte esse sono partecipi inconsapevoli con un pezzo del loro corpo, il volto, i capelli, un occhio, il naso, il cuore, o un atteggiamento o un’intenzione. L’assenza nel mio elenco di personaggi del popolo è quindi semplicemente dovuta al fatto che tra i quattrocento e più della Ricerca la stragrande maggioranza di coloro che hanno un nome e una precisa identità sono i gaudenti che vivono nei castelli e nei prestigiosi palazzi o quei pochi nominati che li circondano come servitori; gli altri sono mere comparse.
Non ha davvero alcuna importanza e non so nemmeno perché lo annoto, ma, a proposito di oggetti, in un saggio di un autorevole commentatore di inizio secolo si accennava al fatto che Proust nella sua opera sterminata non scrive mai il prezzo delle cose. Per amore del vero a pagina 237 delle Fanciulle in fiore (Oscar Mondadori) il narratore scrive che un vaso antico di porcellana cinese gli viene pagato da un mercante diecimila franchi; a pag. 541 dei Guermantes (Gli Struzzi, Einaudi) che una natura morta di Elstir viene pagata trecento franchi; a pag. 127 della Prigioniera (Gli Struzzi, Einaudi) c’è un ambulante che grida otto soldi la mia cipolla! e nella Strada di Swann si legge che una biglia di agata costa cinquanta centesimi di franco. Quest’ultimo prezzo lo si trova a pag. 391 di una rara edizione della Biblioteca del quotidiano la Repubblica che la mia povera moglie mi regalò in un anniversario del nostro matrimonio. Facendomi felice. A proposito di questa edizione, la traduzione di Natalia Ginzburg venne definita, ancora da Giacomo Debenedetti un modello di diligenza, e quasi sempre un saggio di intelligenza molto applicata, attenta, puntuale. Con l’unica eccezione del titolo, Du côté de chez Swann, tradotto topograficamente La via di Swann, trascurando il valore psicologico della preposizione+sostantivo du côté. Dunque molto meglio Dalla parte di Swann, scelto ad esempio da Giovanni Raboni.
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La Repubblica, per chi non ne sia informato, prima della scomparsa dei giornali di carta era uno dei più diffusi quotidiani italiani. E fu anche l’ultimo a chiudere definitivamente i battenti subendo due fendenti, entrambi letali, il primo dai giornali online e il colpo di grazia, quand’era morente, dall’introduzione della censura.
E ora fidatevi di Marcel Proust, il mago che vi porterà per mano a scoprire il mondo dei prodigi, dove l’uomo è una comparsa e comandano le cose. Con lui vivrete un’avventura (consiglio di gustarne qualche goccia al giorno) che vi renderà migliori, purché vi convinciate che tutto quello che leggerete può realmente accadere o sta già accadendo nella stanza accanto, su un orizzonte visibile o dentro la vostra mente. Share
ANTOLOGIA
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